Page 133 - I 100 anni dell'elmetto italiano 1915-2015 - Storia del copricapo nazionale da combattimento
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ANNI TRENTA 133
Verso il nuovo tipo
li anni Venti erano passati, seguendo una lunga e diffusa condizione di pace generale,
tanto da apportare in quasi tutti i Paesi solo sommarie modifiche in fatto di elmetti e
G copricapi metallici. Sarà l’acuirsi delle frizioni internazionali del nuovo decennio a
far sviluppare nuovi prototipi e modelli in numerose realtà militari. L’Italia non fece eccezione
e – nonostante il regime fascista molto avesse scommesso sull’immagine guerriera del proprio
popolo – solo nel 1931 realizzò il primo esemplare di elmetto completamente nazionale. Per
questo motivo il Regolamento sull’uniforme di quell’anno ancora menzionava in via esclusiva
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solo l’elmetto tradizionale della guerra mondiale. Ovviamente il cosiddetto nuovo tipo non
sarebbe nato dal nulla. Pertanto, mentre l’Esercito era tutto intento a mostrare con orgoglio i
propri fregi metallici, in sordina un’accurata programmazione tecnico-industriale aveva avuto
avvio, a cui parteciparono sia società italiane sia straniere. Interessante quindi procedere per
tappe, a partire dalla metà degli anni Venti, così da esaminare alcuni particolari degni di nota.
L’intento principale era, come pare chiaro, non solo raggiungere un manufatto sciovinista,
ma saper fare esperienza dei riscontrati limiti del precedente elmetto, in fatto di resistenza,
compattezza e maneggevolezza. Si partiva nel 1925 da alcune prove eseguite sugli elmetti in
dotazione, che avevano certificato un’accettabile resistenza solo alle pallette di shrapnel lan-
ciate con velocità inferiore ai 100 m/s. Nel tentativo di triplicare tale prestazione, venne fissata
l’asticella all’inizio su un peso sopportabile intorno ai 1.200-1.300 grammi. Le priorità erano
quindi rivolte a: riparare le parti più delicate del capo; facilitare il deviamento dei proietti; assi-
curare l’igiene generale della testa dell’utilizzatore. Venne pertanto costituita un’apposita com-
missione nel 1927, che andò a valutare quanto offrisse il mercato di riferimento, sia in termini
di realizzato sia di realizzabile. Essa si concentrò in via principale sulla forma da adottare e sul
peso da sopportare, decidendo che il tetto massimo dovesse scendere a un chilogrammo. Furo-
no pertanto chiamate a partecipare le principali industrie italiane dell’acciaio, con il proposito
di elaborare una materia prima efficace allo scopo. Solo le Acciaierie di Terni e l’Ansaldo rispo-
sero alla sperimentazione, che consisteva nella prova di resistenza alle pallette di shrapnel di 11
grammi con velocità 300 m/s. La prima ditta presentò dei manufatti ritenuti inefficaci, mentre la
seconda ebbe migliori risultati, non giudicati però ancora sufficienti rispetto alle specifiche tec-
niche fissate; tutti gli elmetti resistevano alla penetrazione, ma alcuni si ammaccavano troppo,
altri sforavano i 1.000 grammi stabiliti. L’Ansaldo quindi apportò delle modifiche, i cui risultati
vennero provati in poligono nel corso del 1928. Furono presi a caso cinque esemplari, da una
partita di 50 pezzi, e sottoposti ai tre prescritti colpi di prova, da eseguire rispettivamente al lato,
sulla sommità e sulla falda della calotta, prendendo a parametro di impatto quanto già eseguito
in precedenza. La prova fu superata, ma i manufatti non convinsero la commissione, che quindi
si riservò di valutare altre proposte.
Nel frattempo, sempre nel 1928, la ditta Pizzigoni di Milano presentò due elmetti metallici
completi di interni: uno pesava 1.170 grammi con spessore 1,38 mm, l’altro 945 grammi con
spessore 1,25 mm. Vennero anch’essi sottoposti alle prove balistiche, presso il Centro esperien-
ze di Nettuno. Nonostante fossero stati prodotti con lo stesso tipo di acciaio, il diverso spessore
evidenziò differenti prestazioni. Anche qui il primo esemplare ottenne risultati graditi, ma non
ancora soddisfacenti, mentre il secondo non superò la prova. Pizzigoni fu invitata a proporre
215 A. Viotti, Uniformi e distintivi dell’Esercito italiano fra le due guerre 1918-1935, op. cit., tomo I, p. 483.

