Page 13 - Giuseppe Garibaldi. L'Uomo. Il Condottiero. Il Generale - Atti 10 ottobre 2007
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            Giuseppe Garibaldi. l ’ uom o, il condottiero, il Generale

            Garibaldi, una biografia, una vita per la libertà


            Prof. Romano Ugolini
            Università di Perugia




                   esare Balbo scrisse nell’aprile del 1847, in un saggio intitolato “Del co-
                   raggio e dell’educazione militare”, che se anche “potessimo avere tre o
            Cquattro Volta, tre o quattro Alfieri o Manzoni, o anche Danti, od altrettanti
            Michelangeli o Raffaelli, senza contare i Rossini e Bellini; io li darei, e meco ogni
            viril cuore italiano li darebbe tutti quanti per un capitano che si traesse dietro du-
            gento mila Italiani, a vincere, od anche a morire, a provare in qualunque modo, in
            qualsivoglia guerra, l’esistenza presente efficace del coraggio italiano”.
               Anche Mazzini espresse più volte lo stesso concetto, senza però arrivare a tali
            rinunce. L’attesa del “generale” era dunque viva in Italia prima ancora che arri-
            vassero nella Penisola e in Europa le notizie sulle capacità militari manifestate
            da Garibaldi in Brasile e in Uruguay. Garibaldi si rese conto di tale realtà solo
            nel 1849, durante l’epopea della Repubblica romana, e comprese che poteva dare
            una veste concreta a un sentimento tanto diffuso: l’attesa si poteva trasformare
            in mito, ed egli sapeva già quale importanza avesse il mito nel creare il consenso
            indispensabile per il radicamento e l’affermazione della Repubblica di fronte a
            forze tanto ostili quanto potenti. A Roma, tuttavia, Garibaldi capì anche un altro
            aspetto di quel mito, e a tale aspetto si mostrò fortemente contrario: il “generale”
            tanto atteso, nella accezione italiana e, per così dire, europea, della funzione,
            doveva essere un mero esecutore sul campo di battaglia delle direttive espresse
            dall’ideologo o pensatore politico; il margine di autonomia del comandante mi-
            litare doveva essere assai limitato, e la sua capacità nell’azione avrebbe dovuto
            essere giudicata anche, e soprattutto, dal grado di ortodossia ideologica rispetto
            alle direttive ricevute. Garibaldi non amava quel ruolo, non era rispondente al
            modello che si era formato in America latina. Per sgombrare il campo, chiariamo
            subito che Garibaldi fu del tutto contrario ad una autorità assoluta di tipo milita-
            re, dalla quale far dipendere il potere politico: il modello napoleonico non fu mai
            il suo; ammetteva unicamente, e per un tempo limitato, nel ricordo della dittatura
            dell’antica Roma, un potere accentrato politico e militare nelle mani di un’auto-
            rità unica, non necessariamente militare.
               Cesare Balbo, nello scritto prima citato, si era limitato a desiderare il generale
            per “una guerra d’indipendenza” nazionale: ebbe molto di più, in quanto, per una
            volta, la realtà superò ogni più rosea aspettativa. Garibaldi divenne l’auspicato
            leader mondiale dell’unica guerra che egli riteneva inevitabile e ineluttabile, la
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