Page 201 - Missione in Siberia - I soldati italiani in Russia 1915-1920
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La campagna deL 1919 e iL ritiro deL cSeo            199

                      Un accenno piuttosto anodino quello dell’ufficiale, che, come molti altri del
                   suo racconto, lascia aperta la strada a molte interpretazioni.
                      Nel corso del viaggio Ferraris si guadagnerà la confidenza di Pavlov, il quale
                   gli svelerà di essere un ex-pope di Simbirsk, la città di Lenin, ma di non aver
                   mai creduto nella propria missione spirituale alla quale si era dedicato, esat-
                   tamente come ora era divenuto bolscevico, per pura convenienza. “Schifoso
                   borghese, pensai”, annota Ferraris.
                      Eppure, proprio all’imprevisto favore del pope-commissario i due italiani
                   dovettero se nessun fastidio fu loro creato ai punti di riconoscimento dalle so-
                   spettose guardie rosse.
                      Mentre il treno procedeva verso occidente, cominciava lentamente il disgelo,
                   e le città lungo la ferrovia cominciavano ad animarsi mano a mano che i giorni
                   e i chilometri trascorrevano. Quando il treno attraversava qualche città senza
                   fermarsi la velocità rallentava fino a 10 chilometri orari; gruppi di affamati cir-
                   condavano allora i vagoni e ai più giovani Vigliotti dava qualche pezzo di pane
                   e di lardo sporgendosi dal portello. Lo spettacolo più drammatico tuttavia erano
                   gli ex-prigionieri tedeschi, austriaci e ungheresi, che ad ogni stazione tentavano
                   di salire sul treno. Laceri e affamati si arrampicavano sui vagoni spintonando e
                   insultando, senza alcun rispetto dell’età e del grado, e pur di partire spesso viag-
                   giavano a cavallo dei respingenti dei carri, rischiando di finire ad ogni momento
                   stritolati sotto le ruote.
                      Un ufficiale ungherese che masticava un buon italiano disse a Ferraris: “Se
                   mai ritorno a casa, farò una proposta umana: non bisognerà nelle future guerre
                   fare prigionieri, ma si dovranno fucilare appena presi… Mille volte meglio la
                   morte che patire quello che abbiamo sofferto noi”.
                      Fuori dei vagoni in movimento sfilava intanto lo scenario lugubre di quella
                   che uno storico britannico chiamerà “la tragedia di un popolo”: paesi incendiati;
                   uomini impiccati ai pali telegrafici; campagne deserte immerse in un silenzio
                   irreale. Nelle stazioni le vittime delle carestie e del tifo erano ammucchiate a
                   decine in enormi, macabre, cataste congelate, mentre la popolazione, intenta ai
                   propri affari e ormai indifferente a tutto, vi passava davanti e pareva non veder-
                   le. Talvolta, in piena steppa, si scorgevano piccoli gruppi di figure spettrali, om-
                   bre mute e infagottate, che camminavano in fila lungo i binari. Uomini e donne
                   con lo sguardo assente, inebetiti dalla fame e dal freddo, diretti chissà dove.
                      Giunti ad Ufa, l’enigmatico Pavlov raccomandò i due tavarisci italiani al co-
                   mandante di un convoglio in partenza per Mosca, sul quale viaggiavano anche
                   ventotto marinai baltici, la temuta guardia pretoriana della Rivoluzione.
                      Il comandante del treno aveva fatto l’ingegnere minerario negli Stati Uniti
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