Page 197 - Missione in Siberia - I soldati italiani in Russia 1915-1920
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La campagna deL 1919 e iL ritiro deL cSeo            195

                   russo ubriaco si lasciò scappare una imprecazione in italiano. Rapidamente un
                   drappello di guardie rosse li circondò e li tradusse alla palazzina del comando
                   della città, la stessa dove aveva avuto sede il Comando del CSEO.
                      Per strano che possa sembrare da principio i russi non ebbero intenzioni
                   particolarmente ostili. Come stranieri i due italiani dovevano registrarsi all’au-
                   torità locale e munirsi di un regolamentare permesso di soggiorno. Dopo un
                   breve interrogatorio il permesso di un mese fu firmato, e i due lasciati andare,
                   piuttosto stupefatti.
                      Storie simili erano frequenti nella Russia di allora. Un paese così enorme era
                   amministrato da un altrettanto enorme apparato burocratico, fatto di funzionari
                   onnipresenti e onnipotenti, che applicavano le procedure talvolta in maniera
                   meccanica e distratta, talaltra arbitraria e brutale. La Rivoluzione aveva sostitu-
                   ito in parte questa classe di impiegati con un’altra di estrazione operaia e conta-
                   dina e aveva moltiplicato fin da subito i meccanismi di controllo polizesco, otte-
                   nendo nei primi tempi un notevole caos in tutti i settori. I due stranieri avevano
                   avuto in quel frangente la semplice fortuna di incrociare un funzionario poco
                   sospettoso, o preso da altri problemi più gravi. Tuttavia un incartamento era
                   stato aperto a loro carico, ed ora la macchina dell’inquisizione sovietica, agli
                   inizi del proprio contorto e sferragliante funzionamento, avrebbe cominciato
                   ad occuparsi di loro: dettagliati rapporti sarebbero stati compilati e telegrafati,
                   ignoti funzionari a Mosca li avrebbero letti e qualcuno avrebbero al fine deciso
                   le successive misure a loro carico. Quali che fossero.
                      La notte stessa i due italiani vennero svegliati nelle prime ore del mattino dai
                   soldati della 5ª Armata bolscevica e tradotti al comando, dove Ferraris venne
                   dichiarato «prigioniero politico», una definizione allora del tutto sconosciuta.
                   Ancora una volta tuttavia la libertà personale gli venne restituita, col solo ob-
                   bligo di non lasciare la città e di presentarsi mattina e sera allo stesso comando.
                   Del resto dove avrebbe potuto scappare un europeo a piedi nel cuore dell’Asia
                   ed in pieno inverno siberiano?
                      Trascorsero così otto settimane di “libertà condizionata”, nelle quali l’uf-
                   ficiale italiano ebbe la compagnia di ventuno ufficiali inglesi ed uno francese,
                   pure loro prigionieri a Krasnojarsk. Quale che fosse la sua missione a Kra-
                   snojarsk il capitano Ferraris non ci dice se abbia potuto svolgerla sorvegliato
                   com’era dalla occhiuta polizia sovietica. Se il suo obbiettivo fosse stato solo
                   ricongiungersi alla moglie a Mosca, non si vede perché avesse deciso di saltare
                   giù dal treno di Antonov diretto ad Omsk, città dove avrebbe potuto passare
                   inosservato certo più che a Krasnojarsk, dove era stato di guarnigione fino a
                   poche settimane prima. Qualcosa doveva attenderlo a Krasnojarsk, ma di quel
                   qualcosa egli non fa menzione nel suo racconto. Certo, ad un dato momento
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