Page 38 - Le Forze Armate e la nazione italiana (1915-1943) - Atti 22-24 ottobre 2003
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            e «al reggimento stesso questo sentimento d'italianità non lo si sapeva instillare suf-
            ficientemente» (3),  ma tutto ciò era stato cancellato dal  fatto che il  conflitto aveva
            spinto «tutti gli  italiani» a combattere per la Patria e che «il  Fascismo  [aveva]  defi-
            nitivamente dato il  marchio indelebile  alla unità nazionale»  (4).
                 Nello stesso tempo proprio la guerra vittoriosa e il  dopoguerra coronato dal
            regime mussoliniano permettevano all'ex-quadrumviro di «parlare più liberamente
            e dire intera ed obbiettiva la verità»  (5),  compresa quella ingrata che il  popolo ita-
            liano si  era presentato all'appuntamento della Grande Guerra con un bagaglio di
            patriottismo alquanto leggero. Settant'anni prima un moderato di ferro quale Pau-
            lo  Fambri  aveva  reagito  in  un  modo  non  dissimile  alla  proclamazione del  regno
             d'Italia. Anch'egli, confortato dalla vittoriosa conclusione del Risorgimento, ave-
            va  sostenuto  che  «tutto s'acquista  fissando  francamente  in  faccia  la  verità  nuda,
             disadorna, che è la vera»(6), anch'egli aveva ammesso che le campagne per l'unità
             nazionale erano state  paradossalmente combattute da militari,  quelli  dell'armata
            sarda, che «di  spiriti nazionali»  ne avevano «pochi,  e sto per dire anzi  punti»  (7).
                 In  entrambi i contesti si  riservava  ad  una guerra  vittoriosa - e poco importa
             che in  un caso  come  nell'altro  il  successo  fosse  soprattutto il  risultato  di  alleanze,
             all'interno delle quali il  regno  di  Sardegna e il  regno  d'Italia avevano  recitato una
             parte da comprimario - il  compito di  certificare  un'identità nazionale,  che si  rite-
             neva che  prima del conflitto non avesse  piantato salde  radici  tra gli  stessi  militari.
             Sottostava  evidentemente  a  tali  ricorrenti  affermazioni  una sorta  di  cortocircuito,
             uno schema meccanico dei rapporti tra guerra e identità nazionale. Nell'età dei con-
             flitti  tra le  nazioni aperta dalla rivoluzione francese  una vittoria non poteva che es-
             sere attribuita alla «dedizione suprema»  della nazione stessa «per il trionfo di un'unica
             causa»,  la causa patriottica. Ma, se una guerra vittoriosa attestava che il  popolo ita-
             liano era compatto nel  suo patriottismo, una sconfitta  poteva indurre a proclama-
             re,  come  avverrà  dopo 1'8  settembre  1943, la  «morte  della  patria».  In  entrambi  i
             casi la nevrosi,  se  non la paranoia identitaria tipica di  buona parte della classe diri-
             gente italiana, l'oscillazione tra l'euforia alimentata dai grandi miti patriottici (la ter-
             za  Roma,  il  Mare  nostrum ecc.)  e le  crisi  depressive,  le  «tempeste  del  dubbio»  alla
             Mazzini, finiva  per assegnare all'esito dei  conflitti un'importanza determinante.



                 (3)  lui,  p.  135.
                 (4)  lui,  p.  19-20.  Come  ripeteva  più  avanti,  a  p.  131,  «una  generazione  e  mezzo  ha
             sentito,  combattuto  e  provata  la  guerra»  e  «col  fascismo  è  entrato  nella  popolazione  quel
             sentimento cii  vero amor cii  patria, che  è  la  base  granitica  clello  spirito militare».
                 (5)  lui,  p.  20.
                 (6)  Paulo  Fambri,  111  caserma  e  fuori.  Bozzetti,  Napoli,  Tipografia  ciel  «Giornale  cii
             Napoli»,  1864,  p.  16.
                 (7)  lui,  p.  49.
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