Page 42 - Le Forze Armate e la nazione italiana (1915-1943) - Atti 22-24 ottobre 2003
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           nella predicazione dell'<<ldea nazionale», la rivista di  punta del movimento nazio-
           nalista, erano poco benevolmente considerati dai superiori e dai colleghi (21).  Non
           a  caso,  ancora,  prima  e  durante  il  conflitto  mondiale  l'esercito  si  preoccupò  di
           sterilizzare il  più possibile  il  fenomeno  del volontariato, impedendo, salvo  pochi
           casi marginali, la costituzione di quei  corpi di  volontari, che nel corso del  Risor-
           gimento  avevano recitato un  ruolo spesso  degno di  encomio,  ma che comunque
           erano sempre stati considerati dagli  ufficiali di  carriera un  rischio,  dal momento
           che incrinavano il  loro monopolio della violenza legale all'interno del paese (22).
                Sotto  questo  profilo  la  Grande  Guerra  va  considerata  prima  di  tutto  una
           guerra di  Stato  e soltanto secondariamente,  nonostante il  «maggio  radioso»  e la
            mobilitazione del fronte interno, una guerra della  nazione o  del  popolo italiani.
            Gibelli traccia  una linea continua sotto il  segno della  violenza e della repressio-
            ne  che  prende le  mosse  dall'ingresso  dell'Italia nella  Grande  Guerra  (<<fu  impo-
           sta [ ... ] da una minoranza [ ... ] contro la volontà della maggioranza parlamentare,
           contro l'opinione delle maggiori correnti politiche e delle masse popolari»), pas-
            sa  attraverso  la  gestione  del  conflitto  da  parte di  Luigi  Cadorna,  di  cui  stigma-
            tizza la  «feroce  disciplina repressiva»,  e riconosce comunque il  suo esito «in  una
            spinta  al  compattamento  forzoso  della  nazione  che  il  fascismo  avrebbe  ripreso,
            trasformato in sistema e  reso stabile»  (23).
                In  realtà  la  gestione  cadorniana  del  conflitto  appare  soprattutto  una  ge-
            stione burocratica, che, se si  basava, come è indubbio, su dei meccanismi forte-
            mente repressivi, peraltro li  utilizzava non tanto perché si.trattava di far  fare la
           guerra ad un  paese che non la voleva,  quanto perché continuava a  prediligere
            gli  attacchi  frontali  e le  manovre  «napoleoniche»  in  un contesto militar-tecno-
            logico, che  di  regola tollerava unicamente la guerra di  posizione,  e soprattutto
            perché scontava il  difficile rapporto tra i militari e i politici, che connotava par-
            ticolarmente il  caso italiano. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, il
            complesso di persecuzione di militari come Cadorna, i quali erano da tempo te-
            nuti  fuori  dai  processi  decisionali  del  governo  (ad  esempio,  il  rovesciamento
            delle  alleanze  e il tenore dei  patti di  Londra furono  comunicati al  capo di  sta-
            to maggiore  e  futuro  comandante in  capo  a  cose  fatte),  anche  in  conseguenza
            dell'evidente  declino  del  loro  ruolo  politico  (erano  praticamente  assenti  dalla



                (21)  Eugenio De Rossi, La vita di un ufficiale prima della guerra, Milano, Mondadori, 1927.
                (22)  Sull'atteggiamento del ministero della guerra nei confronti dei volontari cfr. Vir-
            gilio Ilari, Storia del servizio militare in Italia,  II,  La  «Nazione armata»  (1871-1918), Roma,
            Centro militare  di  studi strategici - «Rivista  militare»,  1990, p.  448-453.
                (23)  A.  Gibelli, La Grande Guerra,  cit.,  p.  11-12.
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