Page 44 - Le Forze Armate e la nazione italiana (1915-1943) - Atti 22-24 ottobre 2003
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                «Il fascismo» - scrive Gibelli - «contribuì ad edificare con gran dispiego di mez-
            zi il mito della guerra patriottica e se ne appropriò, separando definitivamente l'idea
            di  nazione da quella di  libertà e inquinando l'idea di  patria con la politica militari-
            sta di  aggressioni coloniali e di  guerre» (27).  Va  aggiunto che sotto questo profilo il
            fascismo  portava a termine un processo  di  lungo periodo.  Era stata l'Italia liberale
            ad inaugurare, inizialmente senza troppa fortuna, la stagione delle guerre coloniali,
            di guerre condotte nel segno di  una linea strategica, che perfino un militare di  car-
            riera quale Arturo Olivieri Sangiacomo avrebbe condannato quale «politica megalo-
            mane di  Grande Potenza»(28).  Né d'altra parte i vertici dello Stato e del governo si
            sarebbero pronunciati a favore  dell'ingresso dell'Italia nella Grande Guerra, se  non
            avessero  avuto  la speranza di  riuscire  a garantirsi  quel  consenso  diffuso  che  aveva
            circondato la guerra di  Libia (29),  mentre la  spinta fondamentale a favore  della par-
            tecipazione italiana al conflitto non era certo venuta dagli interventisti, fossero o no
            democratici, ma da quegli ambienti (la monarchia, la  destra liberale), che si  riconQ-
            scevano innanzittutto in  una politica di  potenza. Come del  resto in Austria-Unghe-
            ria,  anche in  Italia la  Grande Guerra va  imputata,  per un certo verso,  ad una  fuga
            in avanti  di  élites  ottocentesche, che  si  sentivano minacciate  dal  progresso e che
            speravano in  questo modo di  evitare di  uscire  dalla scena politica.
                La  creazione del  mito della guerra patriottica è affrontato da Gibelli alla lu-
            ce  delle  indagini, che soprattutto negli  ultimi due decenni sono state condotte sui
            cimiteri di guerra e sui monumenti dei  caduti, vale a dire su interventi promossi o
            comunque omologati dallo Stato e dalle classi  dirigenti. Anche per questo motivo
            lo storico genovese non si  sottrae alla  diffusa tendenza, che induce a scorgere nel
            mito soprattutto il  frutto di  una manipolazione delle coscienze da parte dei pote-
            ri  politici  o,  comunque,  di élites  più o  meno  ristrette  quali  i volontari di  guerra.
            Come  hanno  sottolineato  Renato  Monteleone  e Pino  Sarasini  in  un  saggio  con-
            cernente I monumenti italiani ai caduti della grande guerra,  con poche eccezioni,
            quasi  tutte represse  dalle autorità,  tali  monumenti non fecero  altro che  divulgare
            l' «interpretazione ufficiale della guerra, quella costruita e accreditata dagli strumenti
            dell' opinione pubblica controllati dal  potere» (30).


                 (27)  Ivi,  p.  13.
                 (28)  Arturo Olivieri Sangiacomo, Psicologia della caserma, Torino-Roma, S.T.E.N., 1905,
            p.295.
                 (29)  La  «mille  volte  benedetta»  guerra  di  Libia  segnò  un ritorno  in  grande  stile,  grazie
            all'ampio consenso che la  circondò, alla politica di  potenza (cfr. un accenno  in  proposito in
            P.  Del Negro, La  professione militare, cit.,  p.  223).
                 (30)  Renato  Monteleone  - Pino  Sarasini,  I  monumenti italiani ai  caduti  della  grande
            guerra,  in La grande guerra.  Esperienza,  memoria,  immagini,  a cura  di  Diego Leoni e Camillo
            Zadra, Bologna, Il  Mulino,  1986, p.  632.
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