Page 64 - Giuseppe Garibaldi. L'Uomo. Il Condottiero. Il Generale - Atti 10 ottobre 2007
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            ro – Austriaci, Francesi, papalini – che considerava responsabili di quella morte .
               L’altro lutto di questi mesi che precedono il passaggio a New York e l’inizio del
            secondo esilio è quello della rivoluzione fallita, delle illusioni cadute, delle scorie (che
            non tarderanno a riaffiorare) rimaste ad avvelenare i rapporti umani tra gli ex prota-
            gonisti di una pagina non certo indegna quale quella della Repubblica romana. Solo
            che Garibaldi non è come gli altri attori del biennio rivoluzionario 1848-49, i quali
            da un lato si dilaniano nelle polemiche sugli errori commessi, dall’altro si affrettano,
            come se nulla fosse accaduto, a concepire nuovi piani di insurrezione, inducendo un
            uomo serio come Aleksàndr Herzen a ironizzare sulla “ubriacatura dei loro successi”
            accompagnata dal ricordo dei “canti e gli applausi del popolo esultante” . A fronte di
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            questi comportamenti, che nei casi migliori esprimono la volontà di non darsi defini-
            tivamente per vinti, Garibaldi si ripiega su se stesso e sui suoi ricordi, e non è un caso
            che in questi mesi cominci a mettere per iscritto la propria vita facendo largo spazio al
            periodo sudamericano: è il suo modo per onorare la memoria della moglie e ciò che ella
            ha significato per lui, tant’è che qualche mese dopo, inviando un brano del manoscritto
            a un committente americano, gli spiega: “io vi rimetto il primo cenno biografico e non
            stupirete che sia della consorte mia” . E in questa condizione, solo, separato anche
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            dai figli, Garibaldi sbarca in America il 30 luglio 1850  e subito fa capire che non gli
            interessano le manifestazioni e che nessun omaggio popolare potrà cancellare il suo
            disgusto, quel taedium vitae che gli rende insopportabile la compagnia di chiunque e
            che un giorno gli fa dire sconsolatamente che “uno degli attributi incontestabili degli
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            uomini tutti, è quello di rompersi i coglioni reciprocamente” .
               Saltiamo Meucci, la fabbrica di candele e tutta l’altra mitologia di questi dieci mesi
            newyorkesi in cui spicca, perché gravido di futuro, l’incontro con Felice Eleuterio Fo-
            resti, il vecchio carbonaro e poi mazziniano che sta per lasciarsi alle spalle entrambe



            3  Rabbia che permane forte, pur a distanza di anni, nei capitoli XI-XIV del “secondo periodo”
               delle Memorie, dove sono dirette soprattutto contro le “ugne dei discendenti di Torquemada”
               e contro la “ferocia austriaca”, ma raggiungono anche, sia pure con minore risentimento, il
               piemontese La Marmora.
            4  Aleksàndr Herzen, Passato e pensieri, A. Mondadori, Milano 1970, p. 100.
            5  Lettera a Teodoro Dwight, Staten Island, 30 ottobre 1850, in Giuseppe Garibaldi, epistolario,
               vol. III (1850-1858), a cura di Giancarlo Giordano, Istituto per la storia del Risorgimento
               italiano, Roma 1981, p. 35; cfr. pure, su questa prima stesura delle Memorie, Jasper Ridley,
               Garibaldi, A. Mondadori, Milano 1975, p. 423.
            6  Una dettagliata cronaca delle accoglienze riservategli dai newyorkesi e della sua reazione
               abbastanza chiusa in Howard R. Marraro, American opinion on the unification of Italy, 1846-
               1861, Columbia University Press, New York 1932, pp. 30 sgg.
            7  Lettera a Eliodoro Specchi, New York, 10 febbraio 1851, in G. Garibaldi, epistolario, cit., vol.
               III, p. 36.
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