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216        la neutralità 1914 - 1915. la situazione diplomatica socio-politica economica e militare italiana



             del pacifico insediamento di comunità ebraiche in quei territori nel rispetto delle
             altre fedi, nessuna esclusa, insediate a Gerusalemme. La presenza discreta delle
             navi italiane in quel delicato settore del Levante aveva lo scopo di tutelare i mo-
             desti e remoti interessi del nostro Paese esistenti laggiù rispetto alle ben altrimenti
             vigorose iniziative sioniste condotte in quelle terre avvalendosi delle assai più
             rumorose politiche estere ed economiche tedesca e statunitense. Gli italiani in-
             tendevano evitare, inoltre, di incorrere in qualcosa di analogo ai clamorosi fiaschi
             austro-ungarici succedutisi nel 1904 e nel 1906. Vienna aveva infatti cercato di
             creare, mediante un paio di colpi di mano via mare, un proprio insediamento sio-
             nista nel Sinai, a Gaza dapprima e a Taba, sul Mar Rosso, poi, salvo cozzare ogni
             volta contro l’opposizione della Royal Navy britannica. In quelle occasioni, anzi,
             il governo austro-ungarico, conscio come era della debolezza del proprio stru-
             mento navale, aveva chiesto a quello di Roma che la ben più forte Regia Marina,
             una Blue Water Navy rispetto alla Brown Water Navy costiera imperial regia, ap-
             poggiasse gli sforzi asburgici nel Levante battendo bandiera da quelle parti. Alla
             legittima richiesta in merito a che cosa ci avrebbe guadagnato, il Regio Governo
             si sentì rispondere, seccamente, “Nulla”, trattandosi di un dovere di alleato da
             assolvere senza corrispettivi. Ferma restando l’eterna turbolenza di quella par-
             te del mondo e del Mediterraneo in generale, in quanto pur sempre crocevia di
             tre continenti e altrettanti fedi universali, sembra di leggere le cronache odierne
             quando trattano lo spinoso argomento della collaborazione europea davanti al pro-
             blema umanitario, sociale e, pertanto, politico, dell’emigrazione clandestina via
             mare. Per la cronaca Levi-Bianchini, uno dei maggiori pensatori navali del tempo,
             diventò, in seguito, direttore della Rivista Marittima, la tradizionale palestra di
             libero pensiero della Marina italiana dal 1868 in poi, e morì assassinato, nel 1920,
             a bordo di un treno diretto a Damasco in circostanze mai chiarite e degne di un
             romanzo di Agatha Christie.
                Non gran che meglio erano andate, peraltro, le cose in Bosnia-Erzegovina, nel
             1908, quando Vienna aveva pensato bene di dare un’altra picconata al delicatis-
             simo e fragile equilibro continentale. Anche in questo caso siamo davanti a un
             nome tornato recentemente agli onori delle cronache al pari del fatale capoluogo
             di Sarajevo. La sola differenza consiste nel fatto che, all’epoca, la Marina italiana
             non poté, ovviamente, far sentire il proprio peso, relativo o specifico, nel corso
             di quella crisi così lontana dalle coste. Nel 1999, invece, sì, grazie alla propria
             aviazione navale e alla piccola ma preziosa portaerei Garibaldi, concepita con
             grande lungimiranza negli anni Settanta quando Tito era ancora vivo e un simile
             intervento sembrava, razionalmente, peggio che improbabile.
                In Albania, per contro, le Regie Navi intervennero in pieno, dal 1911 fino al
             1914, garantendo all’imbocco dell’Adriatico la conservazione degli equilibri in
             essere tra l’Italia e l’Austria sin dalla fine dell’ “anno dei portenti” 1860. Dopo
             una missione navale internazionale, nel 1913, del tutto analoga a quelle odierne,
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