Page 138 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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138 l’eserCito alla maCChia. Controguerriglia italiana 1860-1943
britannici. Certo, bisognava esercitare un dominio diretto, ma concedere il più possibile
ai capi e cercare di comprendere l’ordine antico e immutato nei secoli che aveva guidato i
destini dell’Etiopia. A ciò dobbiamo aggiungere il ruolo della violenta politica attuata da
Graziani nel 1937, quando, a seguito del noto attentato, ogni possibile trattativa venne
schiacciata. Quando poi era arrivato Amedeo di Savoia, la situazione poteva dirsi chiusa.
Il nuovo viceré tentò di ottenere la fiducia incondizionata del popolo etiopico attraverso
una politica diversa, poi vanificata dall’intraprendenza britannica e dal suo ruolo chiave nel
Secondo conflitto mondiale. L’Etiopia, infatti, divenuta scacchiere di guerra, venne persa
in pochi mesi e con essa naufragò tutto quello che era stato investito: moltissimo in termini
economici, politici e sociali .
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Un esempio da prendere in considerazione quando si parla di approcci militari e politici
è Guglielmo Nasi che assunse il governo della regione dell’Harar il 1° giugno 1936 e lo
mantenne fino al maggio del 1939; in qualità di comandante delle truppe della regione, si
trovò a gestire un territorio grande quanto l’Italia. Nasi sapeva che, una volta conquistata
Addis Abeba, l’esercito italiano si sarebbe trovato a dover fronteggiare enormi difficoltà; gli
etiopi erano guerrieri coraggiosi e, visto quello per cui combattevano, senza remore, come
Nasi sapeva: si contano sulle dita di una mano gli italiani che, una volta catturati dai com-
battenti etiopici, sopravvissero. Il terrore, per gli italiani, tra cui anche Paolo Caccia Domi-
nioni e Amedeo Guillet, era di essere presi vivi, seviziati e poi fatti a pezzi, nel vero senso
della parola; possiamo quindi immaginare che dietro a una certa ipereattività da parte
italiana ci fosse anche un sentimento molto umano: la paura. Che i militari italiani abbiano
ecceduto, che si siano macchiati di colpe simili, adattandosi in un certo senso ai costumi
del nemico, è questo un fatto incontestabile; ma va anche detto che le formazioni italiane
erano costrette ad operare su un territorio assolutamente privo di qualunque infrastruttura:
strade, case, ospedali, persino l’acqua potabile era spesso un miraggio. In questo ambien-
te, si è dovuto dimenticare ogni agio, ogni riferimento alla vita civile occidentale; si sono
tagliati, anche e purtroppo, alcuni principi fondamentali delle convenzioni internazionali.
Il problema più grande con cui dovettero relazionarsi gli italiani riguardò la popolazio-
ne. Stretta fra due fuochi (militari occupanti e guerriglieri) fu quella che più di tutti pagò il
pesante scotto dell’occupazione. I vertici militari ben sapevano che non era saggio infierire
sui civili e parecchie volte avevano consigliato massima disciplina. Che poi spesso questi
suggerimenti non venissero attuati è un dato di fatto. Lo stesso Graziani, leggiamo nelle
sue comunicazioni, s’imbestialì più di una volta perché il nemico era riuscito a compiere
381 Paradossalmente l’Italia aveva fatto in Etiopia ciò che mai nessuno aveva tentato di fare, a partire dai
suoi re e imperatori: l’aveva dotata di un impianto stradale e ferroviario; aveva iniziato a scolarizzare
il suo popolo, aveva curato gli impianti urbanistici delle città più importanti; aveva costruito ospedali
e ambulatori, oltre che villaggi; aveva eretto e restaurato nuove chiese per tutte le confessioni; aveva
cercato, anche se inutilmente, di trasportarvi i moderni metodi di coltivazione. Se oggi analizziamo
la mole di lavoro e di investimenti in ogni campo, attuata dall’Italia in quel paese, non possiamo che
riconoscere nel governo di allora una forte volontà di far nascere dal nulla quell’impero agognato;
non solo per impressionare il resto del mondo, ma anche che per valorizzare veramente quella terra a
beneficio degli italiani e, come conseguenza, degli etiopici.
Capitolo seCondo