Page 97 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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48 Momenti della vita di guerra
Io finora ho creduto che lo storico o l’autore facesse un po’ il poeta nel descrivere
la gente che muore nel nome della patria. Ieri invece, quando Maset (il mio bravo
porta-ordini, il mio primo granatiere, che mi si è rivelato un eroe) m’ha detto sorri-
dendo: «Signor tenente, il plotone d’Amico fa lo sbalzo in avanti», ed io ho gridato,
voltandomi: «Mio bel plotone, avanti!», mi son sorpreso a ridere: ed ero così sereno,
così contento che ad alta voce davo la cadenza alle mie quattro squadre che mi cor-
revano dietro affiancate. E difatti ero contentissimo; e ho pensato che morire così
sarebbe stato bello .
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Questo suo desiderio fu appagato. Dopo molti combattimenti, egli cadde il 3 giu-
gno del 1916 a Monte Cengio. I superstiti narrarono che quando, nella lotta disperata
per fermare il nemico irrompente dal Trentino, il battaglione a cui apparteneva il Ca-
pocci fu distrutto, essi videro scendere giù a gran balzi il Capocci – era il più agile dei
granatieri – e porsi col fucile spianato a custodia della grotta dove giacevano i feriti, e
difendersi finché, colpito a morte, cadde invocando l’Italia.
Altro soldato di razza era indubbiamente Angelo Campodonico, genovese:
Possedeva una forza eccezionale. Appariva sempre dritto e fiero anche quando era
stanco, anzi provava gioia intensa nel resistere alle fatiche. «Vedi, padre – rispondeva
un giorno a Padre Arcangelo (il cappellano) che lo compiangeva perché bagnato,
sporco, dopo giornate di lavori pesanti compiuti sotto l’imperversare delle piogge
– quando io sono bagnato ed ho faticato quanto è possibile sopportare, e tutti gli
elementi della natura paiono scatenati contro di me, e per riposarmi non ho che la
nuda terra, sono contento» .
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Così ce lo raffigura la sorella: e così egli balena nelle lettere sue e nei ricordi dei commilitoni.
Giunto in trincea scrive a casa (26 gennaio ’15). «Tutto bene. In trincea felice» .
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Che cosa fosse il suo noviziato di trincea ce lo narra un suo compagno d’armi: un
quadro veridico e schietto della nostra guerra nel ’15:
Noi eravamo ancora nelle trincee del Monte Sei Busi di fronte a quella maledetta
quota 118 che ci era costata tanto sacrificio di sangue nella giornata del 2 agosto.
Dopo il battesimo del fuoco, dopo i feroci combattimenti, nei quali ci eravamo
trovati improvvisamente impegnati, pochi giorni dopo aver lasciato le ridenti rive
del Garda, continuavamo a trascinare le anime tristi per le dolorose perdite, i corpi
affranti, le divise sporche, lacere, irriconoscibili, fra i sassi del Carso, che sembravano
vecchie ossa dissepolte, e le buche scavate in quella terra rossastra che pare stempe-
rata col sangue.
Abiti e pelle, coperti di quel fango, sembravano di rame. Venti e più giorni di quella
vita ci avevano mutati in orsi, ci avevano sfiniti: eppure si resisteva lì con tenacia, fra i
violenti temporali che ogni notte allagavan le trincee ed il sole ardente che ci soffoca-
va durante il giorno, fra i cadaveri insepolti ed il colera; e si respingevano i frequenti
attacchi nemici, e si cercava, con azioni parziali e con assidui lavori di zappa compiuti
sotto le bocche dei fucili avversari, di strappare al nemico qualche altro di quei sassi.
Vennero una mattina piena di sole, e tosto si dispersero per i comandi delle varie
compagnie alle quelli erano stati assegnati… Essi furono per noi come una folata d’aria