Page 8 - La rappresentazione della Grande Guerra nel concorso della Regina Elena del 1934
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            Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando. Quindi quello che dominava nel racconto della Prima guerra mondiale era anzitutto
            la visione di una realtà inaspettata, della morte di massa senza precedenti, di scontri di inaudita violenza, di una vita mai spe-
            rimentata prima. 4

            Nelle principali città italiane, in particolare a Roma e a Milano, furono organizzate, già dai primi mesi del 1915, mostre e ma-
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            nifestazioni culturali che, presentando le opere dei pittori-soldato realizzate sui diversi fronti, andavano a comporre, dipinto
            dopo dipinto, disegno dopo disegno, una sorta di grande mosaico di quei drammatici quarantun mesi. Questa produzione
            artistica, pur richiamandosi alla tradizione delle rappresentazioni storiche ottocentesche, abbandonava la precisa, analitica
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            ricostruzione dell’evento. Prevaleva invece il diretto coinvolgimento emotivo del pittore-soldato, tanto che le esposizioni illu-
            stravano, piuttosto che le offensive sull’Isonzo, gli scontri sulle Dolomiti o sulle Alpi, le imprese degli aviatori o dei marinai,
            l’esperienza personale dell’artista, i momenti di smarrimento e le sofferenze. “Impressioni di guerra” era difatti il titolo della
            maggioranza delle mostre. Si presentavano gli aspetti più minuti, dolorosi, quotidiani della vita in trincea e nelle retrovie
            come il rancio, le esequie dei combattenti, l’arrivo della posta, le ore di riposo dei fanti o le funzioni religiose. Proprio per
            favorire la più larga partecipazione di pubblico, perché spesso erano organizzate con la finalità benefica della raccolta di
            fondi per gli orfani e per gli invalidi, le esposizioni avevano luogo anche in sedi di grande richiamo e di aggregazione sociale:
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            a Roma, in Campidoglio o alla Galleria Colonna, a Milano, al Teatro alla Scala o alla Galleria Pesaro. Terminato il conflitto,
            venne naturalmente a mancare l’importante contributo delle visioni realizzate dagli artisti che avevano partecipato in prima
            persona alla lotta e andò di conseguenza progressivamente rarefacendosi la presenza di soggetti bellici sia nelle opere di
            pittura sia in quelle di grafica.

            Il sentimento di riconoscenza della Nazione per chi aveva sacrificato la propria vita si manifestò allora con scelte di maggior
            coinvolgimento collettivo, con opere di una più ampia visibilità sociale, che potessero interessare anche le comunità più pe-
            riferiche e isolate. Sorsero da quel momento in ogni parte d’Italia i “Parchi della Rimembranza” dove ogni albero piantumato,
            dedicato a un combattente che non era più tornato, era affidato per la buona conservazione alla responsabilità degli alunni
            delle scuole. Anche i più piccoli agglomerati urbani eressero un monumento e modificarono la toponomastica locale in
            ricordo dei propri morti. Si trattava di trasferire nelle piazze, nelle strade e nei viali, perché non fossero svuotati, dispersi o
            cancellati gli ideali per i quali avevano combattuto i propri concittadini. La maggior parte dei memoriali di guerra esprimevano
            un diffuso sentimento di pietas e rispondevano alla funzione di luoghi dedicati al lutto senza toni di trionfalismo o di cele-
            brazione al valor militare. Successivamente, specie agli inizi degli anni Trenta, fu stabilito il riordino dei cimiteri militari e si
            avviò la costruzione dei grandi ossari sui luoghi delle battaglie più sanguinose. 8









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             Uno degli effetti della prima guerra “moderna” del Novecento fu un uso straordinariamente ampio e generalizzato della fotografia e della cinema-
            tografia. Accanto alle immagini dei fotografi non militari poi pubblicate su quotidiani, riviste, libri illustrati, una parte davvero rilevante furono quelle
            realizzate dal Regio Esercito. Dal maggio 1915 Il Comando Supremo organizzò squadre di fotografi e di cineoperatori appositamente addestrate con
            il compito di riprendere il terreno di operazioni sia a fini strategici sia anche per documentare con finalità storiche le operazioni militari. Al termine
            del conflitto furono archiviati circa 150.000 negativi, risultato dell’impegno su tutti i fronti di oltre seicento militari/fotografi. Nel gennaio 1919 per
            esplicita volontà del generale Armando Diaz una parte rilevante della documentazione cinematografica e fotografica fu affidata al Comitato Nazionale
            per la storia del Risorgimento: Cfr. M. PIZZO, La Grande Guerra la fotografia, in L’Italia e gli italiani nelle Grande Guerra: politica, economia, arte e società
            (1915-1918) Rubbettino, 2016, p. 227-239; Id, L’archivio storico dell’Istituto per la storia del Risorgimento. Documenti per la storia delle collezioni. (in corso di
            pubblicazione); N. DELLA VOLPE, Fotografie militari, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, 1980.
            5  Con questa definizione vengono naturalmente compresi anche gli artisti che realizzarono le loro opere con tecniche differenti dalla pittura: incisione,
            disegno, e altro ancora, tanto che forse sarebbe più corretto utilizzare il termine artisti-soldato.
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             M. PIZZO, “Pittori-soldato: materiali figurativi come documenti d’archivio”, in Pittori-soldato nella Grande Guerra, Istituto per la storia del Risorgimento
            italiano, Roma, Gangemi editore, 2005, p. 13-14.
            7  A. MERIGLIANO, D. CECCUTI, “I riflessi dell’attività dei pittori-soldato nella stampa coeva”, in M. PIZZO (a cura di) Pittori-soldato nella Grande
            Guerra, op. cit., p. 30-46.
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             B. TOBIA, Dal Milite ignoto al nazionalismo monumentale fascista, in Storia d’Italia. Guerra e pace. Milano, Il Sole 24 ORE, 2006, p. 593-633. J. M. WINTER,
            Il lutto e la memoria: la grande guerra nella storia culturale europea. Bologna, Il Mulino, 1998, p. 117-157.
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