Page 9 - La rappresentazione della Grande Guerra nel concorso della Regina Elena del 1934
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INTRODUZIONE 7
A VOI LA GLORIA DI COMPIERE FINALMENTE L’OPERA INIZIATA DAI NOSTRI PADRI
a memoria dei giorni di guerra e soprattutto il ricordo dei caduti, delle migliaia di combattenti che avevano perso la
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vita sulla linea del fuoco, non potevano esaurirsi soltanto in un rito del rimpianto. Sin dai primi giorni di quell’estenuante
L guerra che sembrava non avere mai fine, l’infinita tragedia della morte dei soldati doveva custodire e trasmettere un
messaggio ideale teso a coinvolgere l’intera comunità. Si doveva cioè comunicare che quell’esperienza mai verificatasi prima,
a cui tutto il Paese era stato chiamato a prender parte, aveva come punto di arrivo finale un valore etico e collettivo che tra-
scendeva il lutto individuale per giungere a un significato universale quale poteva essere solo quello della rigenerazione della
Patria, di un più alto destino della Nazione e di un migliore futuro per i figli. La brutalità dello scontro aveva contribuito a
diffondere l’aspirazione e insieme la convinzione che, quasi come una compensazione per il martirio che si stava vivendo,
dopo, sarebbe stato tutto diverso, dopo, sconfitto il barbaro nemico contro cui si stava combattendo, il mondo sarebbe stato
migliore. Così il granatiere Teodoro Capocci, Medaglia d’Oro, nell’ottobre 1915, di fronte allo sconvolgimento cui aveva as-
sistito in quei primi mesi di combattimenti sul Monte Sabotino e all’incombente pericolo per la sua vita, scriveva sul diario:
«Avrei la consolazione di morire pel mio paese per la sicurezza e la libertà dei miei cari, per l’avvenire glorioso dei figli dei
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miei fratelli». Se questo intendimento valse per tutti gli Stati belligeranti sin dall’inizio delle ostilità nell’estate del 1914,
quando ancora si riteneva che anche questa guerra si sarebbe esaurita in pochi mesi come tutte quelle combattute nel XIX
secolo, ancor più determinante risultò per l’Italia che si inserì nella contesa mondiale quando ormai il conflitto aveva mostrato
il suo vero volto e ogni illusione di breve durata era svanita. Si ebbe in questo modo la necessità di una rielaborazione delle
dolorose vicende di quel lungo conflitto che esaltasse il valore del sacrificio de la generazione carsica, come lo storico Adolfo
Omodeo, combattente della 3^ Armata, definì i suoi coetanei che si immolarono su quella terra aspra e desolata o sulle roc-
ciose montagne delle Dolomiti o in qualunque altra parte del fronte, sottolineando il profondo significato che quell’esperienza
aveva assunto con il passare dei mesi. Molti infatti all’inizio non avevano condiviso l’entusiasmo degli interventisti, si erano
opposti alla guerra, avevano maturato nel mondo disperso delle trincee un profondo risentimento verso lo Stato liberale che
li aveva costretti a interminabili mesi di stenti e di angosce, ma poi quella prova, in particolare dopo le tremende giornate
dell’ottobre 1917, aveva accomunato uomini di orientamenti diversi, spesso antitetici, che infine si erano riconosciuti come
cittadini di una patria comune, trovando proprio in questa appartenenza il senso della tragedia appena vissuta: «Per fortuna
nostra Caporetto» scriveva Adolfo Omodeo «ci ferì troppo a fondo: arrivò a toccare strati sensibili della coscienza nazionale,
quella prima rudimentale coscienza italiana che nei sessant’anni dell’Unità era riuscita a costituirsi nel fondo delle multitu-
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dini». Questa fiducia di poter creare una coscienza nazionale fu destinata presto a scontrarsi con le diverse posizioni ideali che
emersero nel primo dopoguerra. Infatti, tornato il tempo di pace, le date simbolo del 24 maggio e del 4 novembre, lungi dal
divenire un momento di unione e di collettiva condivisione, continuarono a rappresentare un’occasione di lacerazione e di
contrapposizione anche violenta tra le opposte fazioni sulla valutazione del conflitto appena concluso, tanto da far apparire l’Italia
come il solo Paese tra i vincitori «in cui nel dopoguerra il dibattito politico appare per buona parte un prolungamento di quello
del periodo di guerra e dell’intervento, come cioè uno scontro tra i fautori e gli avversari di una guerra che c’è già stata». 12
Soltanto nel novembre 1921, quando, nell’anniversario della proclamazione della vittoria, si svolse al Vittoriano l’inumazione
del Milite Ignoto, la più stupefacente, sincera manifestazione di cordoglio nazionale della storia d’Italia che vide la parteci-
pazione accorata e commossa di milioni di persone, allora sembrò veramente che nella memoria di quei quarantun mesi di
sofferenze e di lutti fosse emersa la consapevolezza di far parte di una collettività con un passato comune, ma soprattutto
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Il termine è tratto da E. GENTILE Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma, Laterza, 1993.
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A. OMODEO, Momenti della vita di guerra: dai diari e dalle lettere dei caduti (a cura di R. GUERRI), Roma, Stato Maggiore della Difesa, Ufficio Storico,
2017, p. 47. Quanto questo atteggiamento fosse largamente diffuso nell’animo dei combattenti di tutti gli schieramenti è testimoniato anche dalle
parole di Robert Musil pubblicate sul Soldaten - Zeitung del 1˚aprile 1917: «Non siamo scesi in campo come mercenari e lanzichenecchi al soldo di un
tamburo straniero, siamo gli operai e i costruttori del nostro stesso futuro e del destino della prossima generazione». Cfr. R. MUSIL, La guerra parallela,
op. cit., p. 194.
11 A. OMODEO, “Caporetto”, in «L’Educazione nazionale», 15 maggio 1920, ora in Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, Torino, Giulio Einaudi,
1960, p. 25.
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G. PROCACCI, Appunti in tema di crisi dello stato liberale e di origini sul fascismo, in «Studi storici», Roma, Istituto Gramsci, n. 2, 1965, p. 237. Sul tema
della difficile costruzione di una memoria condivisa anche M. MONDINI, La festa mancata. I militari e la memoria della Grande Guerra, 1918-1923, in
«Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», Bologna, Il Mulino, 2004, n. 4.