Page 101 - Atti 2014 - La neutralità 1914-1915. la situazione diplomatica socio-politica economica e militare italiana
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             tari . Tutto questo impedì il formarsi di un progetto unico di “nazione armata”,  e
             costituì di fatto uno dei motivi di debolezza della proposta.
                Il comune denominatore era costituito però da alcuni postulati fondamentali
             sufficienti a giustificare nei diversi casi l’uso della stessa formula:  all’origine
             c’era il  rifiuto assoluto degli eserciti permanenti regi e del  soldato-macchina
             che li costituiva; a questa organizzazione militare, considerata mano armata del
             dispotismo, e strumento grazie al quale si perpetuava l’antico regime, veniva con-
             trapposto un armamento  a carattere meramente difensivo e temporaneo, destinato
             cioè a costituirsi nel momento del pericolo della patria e a sciogliersi una volta che
             fosse cessato, basato sull’adesione spontanea del popolo, integrata all’occorrenza
             dalla leva generale.
                Da un punto di vista militare,  questo esercito sui generis , al tempo stesso
             nuovo e antico,  sarebbe stato guidato da un nucleo ristrettissimo di ufficiali e sot-
             tufficiali di carriera affiancati da  ufficiali scelti per merito, attraverso l’elezione;
             al loro comando avrebbero agito masse armate formate da cittadini-soldati, sotto-
             posti in tempo di pace a periodi di addestramente e a  richiami molto brevi, tali da
             sottrarli il minimo indispensabile alle loro occupazioni civili. La scuola, e non la
             caserma, avrebbe dovuto provvedere a impartire una sana educazione patriottica
             e militare tale da formare forti caratteri e coscienza politica come si addiceva a un
             cittadino di una repubblica della quale, appunto, la “nazione armata” era  strumen-
             to militare per eccellenza.
                Figlia di una guerra preindustriale, la “nazione armata” trovò fertile terreno
             nell’Età romantica,  quando la “santa carabina” di garibaldina memoria, poteva
             giocare un ruolo da protagonista sulle barricate, in mano al popolo in rivolta. Già
             alla metà del secolo, con la ricomparsa della “guerra grossa” fra le nazioni euro-
             pee essa veniva bollata  dai suoi molti detrattori come del tutto anacronistica sotto
             il profilo tecnico, in rapporto all’evoluzione degli armamenti che richiedevano
             un livello crescente di  professionalizzazione e specializzazione non soltanto nei
             quadri, ma anche nella truppa per la quale sarebbero stati  necessari modalità e
             tempi di addestramento ben più complessi e lunghi di quelli previsti dai teorici

             5   Il caso della Francia dove, ad esempio,  Michelet e Hugo hanno come punto di riferimento
                 costante la Rivoluzione e la levée en masse, è diverso da quello dei liberali tedeschi,  alle prese
                 con lo scomodo retaggio della Erhebung prussiana antifrancese e della conseguente guerra di
                 liberazione del 1813. Cfr. J. Horne, Defining the Enemy. War, Law, and the Levée en masse from
                 1870 to 1945,   in  D. Moran, A. Waldron, (edited by) The People in Arms, cit., pp. 102-103
                 e, ibid.,  D. Moran, Arms and the concert. The Nation in Arms and the Dilemmas of  German
                 Liberalism, in partic. p. 52 e ss. In quegli stessi anni, in Italia, Pisacane elabora un progetto di
                 “nazione armata” nel quale si rifà idealmente alla Roma repubblicana,  rifiuta, sostanzialmente,
                 tutti i modelli al centro della discussione, compreso quello svizzero, e appare preoccupato so-
                 prattutto di dimostrare il «primato guerriero» degli italiani. Quanto alla Rivoluzione francese, ne
                 apprezza gli affetti morali, ma stigmatizza la sua resa al dispotismo napoleonico. Cfr. G. Conti,
                 “Fare gli italiani”,  cit.,  p. 31.
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