Page 511 - L'Italia in Guerra. Il quarto anno 1943 - Cinquant’anni dopo l’entrata dell’Italia nella 2ª Guerra Mondiale: aspetti e problemi
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               a  cuore,  ai tedeschi,  d'avere dei collaboratori  e degli operai da inviare in
               Germania per sostituire,  nelle  industrie, la  mano  d'opera  carente.
                    Ma Mussolini voleva avere un suo Esercito: e dello stesso parere era
               Graziani che aveva accettato, dopo molte esitazioni, la carica di Ministro
               della Guerra di Salò. Il dilemma era: Esercito del fascismo  o Esercito del
               Paese? Graziani, soldato di vecchia scuola, buon comandante coloniale e
               mediocre generale quando fosse opposto a Eserciti moderni di stampo eu-
               ropeo,  voleva  rimettere in  piedi una  struttura tradizionale.  Non voleva
               un Esercito "politico", opponendo in questo la sua concezione sia a quel-
               la di Renato Ricci,  Comandante della Milizia, sia a quella di Alessandro
               Pavolini, Segretario del partito. Mussolini propendeva per la tesi di Gra-
               ziani, ma, come sovente gli era accaduto in passato, e come ancor più gli
               accadde nella stagione del suo patetico tramonto, era propenso a dare ra-
               gione all'ultimo che gli  parlava.
                    Graziani -  anche tramite il colonnello Emilio Canevari, poi caduto
               in disgrazia -  trattò il problema con i tedeschi dai quali ebbe un no qua-
               si  assoluto alla  ricostruzione  di  divisioni  italiane -  si  parlò perfino  di
               dodici,  ma poi ci  si  fermò  a  quattro -  da formare  con gli  internati in
               Germania,  che erano all'incirca settecentomila.  A  quel  "materiale uma-
               no" i tedeschi non davano fiducia, anche qui con qualche buona ragione,
               dal loro punto di vista. Si stabilì pertanto che la maggior parte degli orga-
               nici delle divisioni in fieri fosse attinta da volontari o da ragazzi chiamati
               alle  armi.
                    A  questo punto è il caso  di  azzardare qualche considerazione sulle
               qualità (o le  non qualità) di quegli elementi  delle  Forze Armate italiane
               pre-armistizio che aderirono alla Repubblica di Salò. Vi fu  una massa di
               passacarte tavolineschi -  con molti generali ed alti ufficiali -  che entrò
               nelle file "repubblichine"  per vischiosità burocratica e comodità persona-
               le assicurandosi uno stipendio, senza dover far altro che continuare a pas-
               sar carte là dove le aveva sempre passate. Questo fenomeno rimase molto
               rilevante finché i tedeschi mantennero il possesso di Roma, dove tanti guer-
               rieri  cartacei  si  trovavano,  e  si  attenuò  a  mano  a  mano  che la  resa  dei
               conti s'avvicinava per fascisti e nazisti, e che il fronte si spostava a nord.
                    Poi vi furono i fanatici e gli avventurieri, i primi tarantolati da una
               fede che diventava facilmente odio, i secondi estasiati dall'idea di trovar
               modo, in un ambiente così  convulso e drammatico, di dar sfogo al  loro
               desiderio di violenza o di rivalsa. E infine vi furono dei soldati di prim' or-
               dine, politicamente ciechi ma moralmente degni, che sentivano la vergo-
               gna  del  voltafaccia  armistiziale:  atto  politicamente necessario  ma senza









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