Page 33 - Dalla Battaglia d'arresto alla Vittoria - La storia e le emozioni attraverso le testimonianze dei protagonisti
P. 33
1917. La rotta di Caporetto, L’inCreduLità e L’angosCia 31
nudo e prativo, parallelamente e contrariamente a loro. Poi mi sdraiai «come
giumento che più non vuol trarre le some» sull’erba, accasciato; le lagrime
s’erano inaridite e un istupidimento brutale mi teneva. Nel fondo dell’anima
l’angoscia della prigionia e una speranza ultima di salvarci la notte; ancora
non guastavamo le armi. La cosa ci pesava; non so in che speravamo. Vicino
a me i miei migliori soldati: Raineri Andrea, del 95, (venuto dall’America,
di Menaggio) e Sassella Stefano, di Grosio, il mio attendente, del 97. Erano
essi pure costernati: già uomini, sebbene giovanissimi; e intelligentissimi en-
trambi; sebbene Sassella fosse un contadino, avevano la netta visione della
sciagura nazionale e personale. Non imprecavano a nulla, a nessuno, oppressi
dalla realtà presente. Sassella, con la sua inquietudine della notte, e con la sua
tristezza, era stato presago: egli sarebbe stato all’Ospedale se, (per devozione
a me non lo fece) avesse marcato visita a Clodig. Invece mi seguì, sebbene
malato di febbre reumatica e brutto di cera, e fu preso! Poveretto. Gli altri
soldati tutti erano angosciati; tutti rispettosi ancora, nessuno disapprovò l’in-
vito nostro di attender la notte. Solo alcuni, più paurosi, temevano per la vita
e avrebbero voluto darsi prigionieri subito. Ricordo fra gli altri paurosi il mio
armaiolo, Marchioni Giovanni, cl. 97, di Gardone Val Trompia, già armaiolo
in una succursale della fabbrica dei fucili 91 a Gardone.
Scritto il 29 nov. 1917 a Rastatt.
Il nostro animo era in uno stato di dubbio angoscioso; il quale andava a
mano a mano tramutandosi nella certezza orribile della prigionia. Il fischietto
degli ufficiali tedeschi che ordinavano l’avanzata ai loro, verso i monti di là
dal fiume ci giungeva distinto. Ancora si fece sentire qualche colpo di fucile,
qualche breve scarica di mitragliatrice, credo contro qualche tentativo di fuga.
Noi eravamo di qui d’un fiume invalicabile, senza ponti: i tedeschi, avendo
sfondato a Plezzo e a Tolmino, s’erano già tra loro allacciati di là dal fiume: a
Caporetto c’erano; a Drezenca c’erano già, scesi dal Mzli. Noi eravamo esau-
sti di forze e d’animo, accasciati, quasi digiuni. Ma sopra tutto l’impossibilità
di passare l’Isonzo. Io e Cola pensammo quindi ormai inutile il prolungare
le nostre speranze; sarebbe stato puerile. De Candido uscì con un fazzoletto
bianco, mentre io e Raineri guastavamo le armi della mia sezione, asportan-
done e disperdendone la culatta mobile, il percussore e altri pezzi. Che dolore,
che umiliazione, che pianto nell’anima anche in quest’atto ormai inevitabi-
le. L’ufficiale che a Torino aveva fatto il possibile per assicurare all’eserci-
to il funzionamento d’un ottimo reparto, che aveva la consolazione d’esserci
riuscito, dover gettare così le sue armi, lasciarle li, negli arbusti! Parimenti
a
guastata fu l’arma della 3. Sezione che ancor rimaneva. Guastando le armi,
compivamo un estremo dovere: sebbene il numero dei cannoni, del materiale,