Page 29 - Fondo M-9 - Serie Sicilia (Pantelleria, Lampedusa, Egadi e Calabria)
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IntroduzIone - nota storIca                  29


              dere come ordine di grandezza in quanto le diverse fonti disponibili riportano
              cifre non sempre collimanti - va articolato, per i profili giuridici ed umani
              che ne discendono, in due grandi componenti: quella dei prigionieri di guerra
              e quella degli internati. A completare il quadro non si può non accennare a
              quanti, travolti dagli eventi bellici o costretti dalle modificazioni traumatiche
              degli assetti territoriali e dagli sconvolgimenti politici, hanno dovuto lasciare
              affetti, case ed averi per trasferirsi altrove e vivere, da profughi. In sostanza, si
              tratta di una massa enorme, il cui travaglio - nella sua incidenza diretta, di tipo
              affettivo, riferita, cioè, ai nuclei familiari di appartenenza - è stato avvertito
              per lo meno da 5 milioni di italiani, vale a dire da più di un decimo dell’intera
              popolazione del nostro Paese. È facile comprendere quali ripercussioni ciò
              abbia avuto sotto il profilo psicologico, in termini di risentimento o di consen-
              so, e sul tono morale di una gran parte della comunità nazionale. Qualche au-
              torevole studioso ha osservato che la storiografia ufficiale non ha inteso dare
              grande spazio, da noi come altrove, al grande capitolo della cattività in guerra
              o per effetto della guerra (quella riferita, appunto, alle tre grandi categorie
              della prigionia, dell’internamento e della deportazione); cattività da intendere
              essenzialmente, per quanto riguarda la prigionia e l’internamento, come defi-
              nitiva neutralizzazione di forza combattiva e, quindi, come elemento da calco-
              lare nell’equazione del confronto militare; ma da intendere anche come fattore
              dirompente sotto il profilo psicologico, non soltanto per i diretti interessati, ma
              per l’opinione pubblica tutta portata a legare la prigionia all’idea mortificante
              della sconfitta o, ancor peggio, dell’annientamento.
                 Il dato numerico dei prigionieri del secondo conflitto mondiale fa sorgere
              più di un interrogativo sulle ragioni di così massicce neutralizzazioni concen-
              trate, oltre tutto, nel tempo. Sul piano generale il tipo di guerra, caratterizzato
              - com’era - dalla elevata mobilità delle formazioni di attacco, con connessa
              esaltazione delle possibilità di manovra, in un gioco di spinte e controspinte
              portava di fatto alla neutralizzazione di consistenti aliquote di forze. Tanto
              più favorite - queste occasioni - dall’evidente marcato sbilanciamento negli
              armamenti e nei mezzi a nostro sfavore. L’Italia pagava lo scotto della sua
              inadeguata preparazione ad una guerra di movimento, pur avendone da tempo
              sostenuto la validità e teorizzato le modalità di sviluppo. Tra i prigionieri e
              gli internati si pone il diaframma dell’8 settembre 1943, quale elemento di
              separazione fra le due categorie, nel senso che i primi costituiscono, nella loro
              interezza, il blocco di coloro che persero la loro libertà in scontri armati prima
              dell’Armistizio, mentre i secondi (gli internati) furono avviati nei Lager a
              partire proprio da quest’ultimo evento.
                 Il “blocco prearmistiziale” è la sommatoria di apporti successivi, scaglio-
              nati nel tempo, a conclusione di cicli operativi che hanno interessato:
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