Page 152 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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152 l’eserCito alla maCChia. Controguerriglia italiana 1860-1943
complicare le cose erano anche la mancata restituzione delle armi da parte di ex ascari e il
numero esagerato di autorizzazioni di porto d’armi a titolo onorifico. Per questo Graziani
decise di non concederne altre e che, anzi, quelle esistenti fossero nel tempo progressiva-
mente ritirate “sia in occasione del decesso del titolare, sia in occasione di infrazioni da lui
compiute” . In un telegramma del settembre del 1937 indirizzato al governatore dell’A-
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mara Pirzio Biroli, Graziani indica in modo molto chiaro i criteri da seguire per arrivare al
disarmo di una popolazione abituata da sempre a usare le armi, soprattutto per difesa per-
sonale: bisognava far comprendere agli indigeni che solo consegnandole avrebbero potuto
vivere sereni e che il governo avrebbe provveduto alla loro sicurezza. Per ottenere l’agognata
“pulizia”, all’uso della forza doveva accompagnarsi una politica di persuasione, con un ri-
corso mirato a “provvedimenti di rigore”, in quanto “nulla può uguagliare il danno prodot-
to da un rigore mal applicato” . Nei piani di Graziani, quindi, prima venivano disarmo
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e sottomissione, poi di pari passo organizzazione stradale e azione politica, accompagnata
dall’elargizione di generosi sussidi.
Nelle operazioni di polizia coloniale venne abbandonato il concetto della “massa unica”,
peraltro non più utilizzato dal Negus all’inizio del conflitto, preferendo masse parziali, in
grado di spostarsi veloci senza dare troppo nell’occhio e capaci di azioni improvvise. In
termini squisitamente tecnici, per quanto riguarda nello specifico le operazioni di grande
polizia, le unità che ebbero un ruolo fondamentale furono i battaglioni coloniali e le ban-
de regolari e irregolari, incluse quelle locali che si dimostrarono molto utili. Alla fine del
1937, sulla base delle prime esperienze Graziani segnalò al ministero dell’Africa Italiana la
necessità di portare l’organico dei battaglioni da 4/500 uomini a 750, quando la forza del
battaglione all’occidentale in tempo di pace si attestava sui 500 . Per il generale Maletti
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il battaglione coloniale doveva poter schierare dai 900 ai 1.000 uomini con armamento
leggero per preservare due caratteristiche fondamentali nella controguerriglia: mobilità e
resistenza. Lessona diede sostanzialmente ragione a Graziani: i battaglioni in tempo di
guerra dovevano essere più consistenti di quelli in tempo di pace e l’organico avrebbe do-
vuto essere mantenuto tale fino al termine delle operazioni . Battaglioni di queste dimen-
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sioni si erano avuti anche in Libia, quando eritrei, libici, yemeniti, sudanesi e altri avevano
combattuto la Senussia e le sue bande armate.
A proposito di bande, quelle agli ordini degli italiani in Etiopia, potevano arrivare a
un migliaio di uomini, proprio per essere in grado di fronteggiare l’improvviso attacco di
2/3.000 armati, invisibili poiché nascosti nel fitto della boscaglia. Era vivamente sconsi-
gliato, anche nelle avanguardie, l’utilizzo di reparti che non contassero qualche centinaio
di fucili. A causa del terreno tormentato e della mancanza di strade, come era stato fatto
in Libia, si decise che i reparti fossero il più leggeri possibile in termini di salmerie e di
armamenti pesanti, dotandoli del minimo necessario per affrontare giorni di isolamento.
412 Ibidem.
413 Tel. n. 26 del 7 settembre 1937, AUSSME, Fondo D-6, DS 67.
414 Tel. n. 50967 del 3 novembre 1937, AUSSME, Fondo D-6, DS 73.
415 Tel. n. 71735 del 3 novembre 1937, AUSSME, Fondo D-6, DS 73.
Capitolo seCondo