Page 159 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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Il RegIo eseRcIto e le opeRazIonI dI polIzIa colonIale In afRIca (1922-1940)  159

              dell’avversario. Per riuscirvi Graziani, memore dell’esperienza libica, utilizzò uno strumen-
              to diverso da quello che sarebbe stato utilizzato in situazioni analoghe in Europa, dando
              sempre più spazio ai reparti indigeni. L’elemento di punta furono le bande regolari e irre-
              golari, unità di una certa consistenza, ma agili e rapide nei movimenti, che potevano essere
              mobili, capaci di spostarsi in base all’esigenza da un punto all’altro, o locali e fisse, per la di-
              fesa di località e vie di comunicazione. In un’operazione di polizia coloniale a livello locale
              potevano comunque essere impiegati oltre alle bande anche carabinieri e zaptié, rinforzati
              magari da una compagnia fucilieri, come fu fatto nel settembre del 1936 lungo il percorso
              della ferrovia.
                 Ugo Cavallero, in uno schema operativo di carattere generale indirizzato ad Amedeo
              d’Aosta, suggerì un maggior ricorso alla cavalleria, in grado di inseguire con successo un
              avversario che dopo lo scontro si disperdeva in piccoli gruppi allontanandosi velocemente.
              Bisognava invece agganciarlo e impedirgli di fuggire, il che era possibile sia con l’impiego di
              aliquote di cavalleria sia con l’azione convergente e sincronizzata di più colonne .
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                 Secondo Graziani, alla fine del 1937, per soffocare alcuni focolai di rivolta dell’Amara
              era preferibile incrementare gli organici dei battaglioni piuttosto che crearne di nuovi. Per
              questo non c’erano uomini e mezzi a sufficienza, mentre bastavano per portare quelli già
              esistenti a un migliaio di unità . In questo quadro si inseriva l’utilizzo di mezzi “nuovi”
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              come il carro veloce, il mortaio da 45 e, anche se non di frequente come si crede, il lancia-
              fiamme.
                 Per il controllo del territorio era fondamentale sia garantire la sicurezza assoluta dei pre-
              sidi sia condurre con continuità un’azione di rastrellamento impiegandovi colonne mobili.
              Riguardo ai presidi temporanei, nel novembre del 1937 Gariboldi diede ordine che tutte
              le opere difensive realizzate per la protezione di cantieri, ponti, guadi, fossero rase al suolo
              al momento di lasciarle poiché non si potevano consegnare al nemico strutture che avreb-
              be potuto sfruttare a suo vantaggio . Le colonne mobili erano spesso composte da più
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              battaglioni e potevano contare anche 3.000 uomini di truppa di colore, come la colonna
              Mariotti nel novembre del 1936. Ad un così gran numero di indigeni si contrapponevano
              i pochi ufficiali che li inquadravano e uno sparuto contingente di soldati bianchi, spesso
              camicie nere, e questo per non limitarne la mobilità e alleggerire al massimo la logistica e
              i servizi. A proposito dell’artiglieria al seguito di queste colonne si legge in una relazione:
              “In tale formazione i bianchi si riducono al servizio del pezzo, con un capo pezzo e cinque
              serventi.[...] gli indigeni formano il reparto conducenti dello scaglione munizioni, delle
              salmerie e il nucleo a disposizione di retroguardia, comandato da un graduato indigeno per
              alleggerire la marcia della colonna formata dalla sezione, questa viene inoltre divisa nella li-

              436 Schema operativo generale del 4 febbraio 1938, AUSSME, Fondo I-4, busta 06.
              437 Tel. n. 810 del 2 ottobre 1937, AUSSME, Fondo D-6, DS 69.
              438 Distruzione opere difensive abbandonate del 14 novembre 1937, AUSSME, Fondo D-6, DS 74, alleg.
                 59. Anche quando si distruggeva tutto i resti potevano essere riutilizzati: “[...] Inoltre risulta che armi
                 fatte bruciare dal vice-residente Injabara all’atto dell’abbandono del presidio nel settembre scorso an-
                 no, sono state in parte rimesse in efficienza da abili falegnami indigeni”(tel. n. 2784, firmato Amedeo
                 di Savoia, del 2 gennaio 1938, in AUSSME, Fondo D-6, DS 79).
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