Page 33 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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GuerriGlia e controGuerriGlia nell’italia meridionale. il Grande briGantaGGio post-unitario (1860-1870) 33
Tecniche d’impiego
Nell’esercito piemontese, appena uscito dalle esperienze delle prime guerre d’indipen-
denza, le tecniche d’impiego per le varie armi si ispiravano al “principio della massa”, in
uso negli eserciti francese e austriaco, ma già in evoluzione in quello prussiano. Del resto,
nell’affrontare la campagna dell’Umbria e delle Marche, la preparazione dei piemontesi era
in linea con le dottrine dell’epoca; nel meridione, invece, si dovette affrontare un avversario
totalmente diverso, appoggiato da una popolazione che contestava il regime unitario, e ci
si rese conto, almeno inizialmente, dell’inadeguatezza. I quadri dell’esercito piemontese
mancavano di una visione dinamica del combattimento e di una pratica addestrativa aperta
agli imprevisti del campo di battaglia: come appena accennato, applicavano rigidamente
il principio della massa del modello franco-piemontese che prevedeva l’urto travolgente di
successive colonne di battaglioni in movimento verso la conquista dell’obiettivo. Per contro
nell’esercito prussiano erano valorizzati l’iniziativa individuale ed il combattente contro
una concezione dell’attacco metodico, impostato sul binomio fuoco-movimento e affidato
a piccole colonne, generalmente a livello di compagnia, fra di loro intervallate e sostenute
da cacciatori . L’impianto teorico, ovviamente si rifletteva nella pratica: l’ordinamento,
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l’addestramento e l’impiego delle unità italiane le rendeva adatte allo scontro frontale, ma
poco idonee alla manovra e meno ancora ad azioni di controguerriglia, allora sconosciuta
alla dottrina tattica dell’Armata Sarda.
La fanteria, infatti, lenta nei movimenti (velocità di marcia di 2 Km/h) e condizionata
da un limitato raggio d’azione (massimo 10 km/giorno), difficilmente riusciva a prendere
contatto con le bande che “dalle favorevoli posizioni che occupano possono vedere l’arrivo
delle truppe ed evitare lo scontro, per ricomparire poi più ardite in altri luoghi” . Anche
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la cavalleria, per le limitazioni imposte dal terreno e per la sua pratica addestrativa basata
sulla forza d’urto della carica e non ancora impiegata in compiti esplorativi, apparve inizial-
mente disorientata e incapace di azioni risolutive. La sola specialità che trovò impiego vera-
mente efficace furono i bersaglieri che, addestrati a manovrare in “cacciatori” e a sfruttare
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il terreno, costituirono gli avversari più temuti dalle bande, benché il loro numero (8 bat-
taglioni nel 1861, aumentati progressivamente fino a 18) fosse esiguo per le esigenze di un
così vasto territorio. Un articolo comparso sulla “Rivista Militare” del 1863, si proponeva
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la costituzione di unità di bersaglieri a cavallo , armati di sciabola e carabina e montati su
piccoli cavalli, (analogamente ai Chasseurs d’Afrique francesi) allo scopo di poter inseguire
i briganti, smontando e combattendo con la carabina - a differenza dei reparti di cavalleria
37 Cfr. luiGi tuccari, Memoria sui principali aspetti tecnico operativi della lotta la brigantaggio dopo l’u-
nità (1861-1870), op. cit., p. 210.
38 Da una relazione del prefetto Mayr di Caserta del settembre 1862, cit. luiGi tuccari, Memoria sui
principali aspetti tecnico operativi della lotta la brigantaggio dopo l’unità (1861-1870), op. cit., p. 211.
39 Reparti di fanteria leggera che con diverse denominazioni, tra cui quella di cacciatori, combattevano
non come la fanteria di linea in ordine chiuso, ma in catene rade, su un fronte più ampio, cioè so-
stanzialmente in quello che, con un termine moderno, oggi viene definito “ordine sparso”.
40 AUSSME, Fondo L3 studi particolari, busta 128, fascicolo 3.