Page 338 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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338 l’eserCito alla maCChia. Controguerriglia italiana 1860-1943
Nei primi tempi delle operazioni di controguerriglia nei Balcani i vertici dell’esercito
non videro la necessità di ricorrere a formazioni speciali addestrate ed equipaggiate per la
lotta anti partigiana. Non si pensò quindi a costituire scuole o centri di istruzione dedicati
allo studio delle soluzioni più idonee al contrasto della guerriglia, né lo S.M.R.E. pensò
ad adeguare le tecniche di combattimento, l’armamento e gli equipaggiamenti, nonché la
costituzione organica dei reparti di fanteria, a questa particolare esigenza. Tutto si limitò
alla circolare n. 36.000 che doveva servire da guida per i reparti di fanteria e della M.V.S.N.
nella lotta contro le bande. Nel 1942 la comparsa delle brigate proletarie d’assalto, le me-
glio organizzate e armate e le più motivate tra le formazioni titine, in grado di compiere
anche azioni manovrate a largo raggio e dotate di una consistente potenza di fuoco, mise
in luce le carenze della fanteria italiana in rapporto a questa specifica minaccia. Le brigate
proletarie d’assalto, infatti, non si limitavano più ad azioni episodiche di guerriglia nella
forma dell’imboscata o dell’incursione, ma, sia pure in terreno boscoso e rotto, non esitava-
no ad affrontavare in combattimento convenzionale formazioni organiche italiane a livello
di battaglione. Finché le bande erano state composte di qualche centinaio di elementi, privi
di autonomia logistica e fortemente legati al territorio, che di fronte alla minaccia di forze
superiori tendevano a rompere il contatto o a disperdersi per confondersi con la popola-
zione, i gruppi tattici di fanteria appoggiati da mortai medi e da qualche pezzo d’artiglieria
someggiabile avevano avuto buon gioco con perdite relativamente contenute. La superio-
rità numerica e di volume di fuoco, integrata talvolta da azioni aeree di mitragliamento e
spezzonamento a bassa quota, garantivano ai battaglioni italiani un netto vantaggio una
volta a contatto balistico con l’avversario. La lentezza e la scarsa mobilità su un terreno va-
rio erano compensate dalle armi di reparto e dalle bocche da fuoco a tiro teso e curvo, che
potevano inoltre contare su un costante rifornimento di munizioni. Contro un nemico che
in genere rifiutava il combattimento se in inferiorità numerica e privilegiava l’imboscata,
le dotazioni d’armamento, l’addestramento e lo spirito combattivo della fanteria italiana
si erano dimostrati adeguati, al pari della normativa tattica contemplata nella circolare n.
36.000. Nel combattimento difensivo, inoltre, le forze italiane, sostenute dall’organizza-
zione territoriale e da pezzi d’artiglieria da campagna e mezzi corazzati leggeri non avevano
dovuto preoccuparsi troppo degli attacchi degli insorti, anche se superiori numericamente.
Tutto questo era stato vero fino all’estate del 1942 in Slovenia e Croazia e fino a tutto il
1942 in Montenegro e in Grecia, un periodo in cui le sconfitte subite in singoli combatti-
menti non riguardarono mai unità di livello superiore alla compagnia. Le cose cambiarono
con l’entrata in azione delle brigate d’urto, spesso riunite in formazioni di livello superiore,
rifornite di armi e munizioni dagli aviolanci alleati. Già nel corso del 1942 in Croazia e
Bosnia-Erzegovina, e nel 1943 negli altri teatri d’operazione, le bande si dimostrarono in
grado di affrontare in campo aperto i reparti italiani e avere la meglio su raggruppamen-
ti tattici a livello di battaglione. Nel 1943 erano equipaggiate con un buon numero di
mortai e qualche cannone/obice, particolarmente utili negli attacchi ai presidi italo/croati,
reimpiegavano prontamente i veicoli catturati, compresi i carri armati, e disponevano di
officine attrezzate per la produzione di bombe da mortaio da 81, bombe a mano, mine e
lanciabombe improvvisati. Emersero allora tutte le lacune della fanteria italiana nel campo
Capitolo terzo

