Page 90 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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90 l’eserCito alla maCChia. Controguerriglia italiana 1860-1943
altri soldati, diventava un telo da tenda. Niente scarpe e niente uniformi di ricambio. Nelle
marce la disposizione era quella classica: nell’ordine cavalleria, fanteria, artiglieria, ambu-
lanza, salmerie e carreggio, “carne in piedi” e una robusta retroguardia.
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Il comandante interinale del Regio Corpo Truppe Coloniali della Tripolitania, generale
di divisione Luigi Cicconetti, dopo l’esperienza di Bir Zograr, nell’agosto 1926, affermava
che in colonia la vittoria era il frutto della manovra più che del fuoco e che i reparti non
dovevano “lasciarsi incatenare al terreno da pochi ribelli” , ribadendo che per vincere
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non contava il numero, ma la superiorità in termini di armamento e addestramento. Data
la continua attività del nemico, era fondamentale non mollare mai la presa e rendere più
efficace la vigilanza attraverso “operazioni di polizia a più largo raggio ed a carattere essen-
zialmente aggressivo piuttosto che preventivo e difensivo” . Il generale aggiungeva poi
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che queste truppe avrebbero dovuto essere prevalentemente di colore, per lo più a cavallo,
dotate di mitragliatrici, di radio e del necessario per assicurare loro un’autonomia di una
settimana. Anche per Cicconetti quindi per aver la meglio sulla guerriglia più che la forza
erano necessarie velocità e autonomia, un concetto che sarebbe stato ribadito in Etiopia
dieci anni dopo. Se si voleva vincere un nemico tanto sfuggente bisognava tagliargli i rifor-
nimenti, isolarlo dalla popolazione e non dargli tregua, come Graziani non si sarebbe mai
stancato di ripetere negli anni successivi.
Le notizie forniteci dal colonnello Polli in merito alle operazioni nella Ghibla nell’estate
del 1928 permettono di aggiungere ancora qualche tassello al mosaico: nel combattimen-
to gli eritrei andavano tenuti sotto controllo, per evitare fughe in avanti nell’eccitazione
dello scontro e un consumo indiscriminato di munizioni. L’avversario poteva, anche se
raramente, attaccare di notte per avere un maggiore effetto sorpresa, penetrando nell’ac-
campamento, nel qual caso bisognava istruire la truppa a rispondere all’arma bianca, senza
armi da fuoco. Il concetto dell’utilizzo dell’arma bianca verrà ripreso due anni dopo anche
da Badoglio, il quale sosteneva che nel combattimento bisognava evitare il “sistema arabo
della sparatoria da lontano” che permetteva al nemico di rompere il contatto: la soluzione
vincente era l’arma bianca . Gli scontri così sarebbero stati più cruenti ma anche più
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risolutivi, come avevano scoperto da tempo altri eserciti impegnati in operazioni coloniali.
Secondo Polli, il campo andava montato ad almeno 100 metri da eventuali cespugli,
per impedire che il nemico si avvicinasse al coperto, mentre nella marcia le formazioni
dovevano essere quanto più aperte possibile, facendo attenzione alla copertura sui fianchi
e al collegamento tra i reparti. Prima di attraversare una strettoia bisognava avere l’assoluto
controllo dello sbocco e delle alture che la sovrastavano, con l’accortezza poi di aumentare
la sorveglianza “verso oriente al sorgere del sole o della luna e verso occidente al tramontare
212 Con l’espressione “carne in piedi” ci si riferisce agli animali portati al seguito delle truppe, per fornire
carne fresca senza appesantire il convoglio.
213 Tel. n. 5864 del 6 agosto 1926, firmato Cicconetti, AUSSME, Fondo L-8, busta 155, fascicolo 16.
214 Tel. n. 6982 del 12 settembre 1926, Ricognizioni e puntate, firmato Cicconetti, AUSSME, Fondo
L-8, busta 155, fascicolo 14.
215 Tel. n. 151G. del 7 luglio 1930, firmato Badoglio, ACS, FG, scatola 8. Lo stesso documento è in
ASMAI, Libia, Posiz.150/22, fascicolo 98.
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