Page 88 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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contingenti e ad esse adeguare l’impiego delle sue forze” .
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In un simile contesto era fondamentale la sorpresa. Il nemico aveva serie difficoltà nel
concentrare le forze e farle muoverle in modo coordinato, in quanto per riuscirvi i capi
erano costretti a lunghe trattative delle quali spesso gli italiani venivano informati, e in
questi condizioni la sorpresa, quando riusciva, era il frutto di circostanze fortuite. Altri
fattori decisivi erano la velocità di esecuzione delle truppe e la prontezza decisionale del
comandante. Il nemico poi, se percepiva la sconfitta, si sottraeva subito al combattimento
sia per salvarsi, sia perché, secondo Mezzetti, non aveva “una valorosa tradizione militare
da salvaguardare” . Un’altra considerazione piuttosto ovvia era che “una colonna di tre
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battaglioni che dipenda da 6 mesi dal medesimo capo, valga assai più di una colonna di 4
battaglioni formata alla vigilia dell’azione” .
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Le operazioni militari volute da Volpi resero subito evidenti importanti cambiamen-
ti nell’organizzazione del Regio Esercito, in parte derivanti dall’esperienza della Grande
Guerra, con l’utilizzo di mezzi di trasporto meccanizzati e di forti contingenti di truppe
indigene in grado di usare contro il nemico le sue stesse tattiche. La diversità tra truppe
nazionali e indigene era apparsa subito chiara, e a riguardo il generale Mezzetti affermava
che i soldati italiani avevano poca resistenza alle marce e che solo montati non rallentavano
l’avanzata delle colonne, oltre al fatto, da non sottovalutare, che in azione i comandan-
ti facevano di tutto per risparmiarli . In combattimento, anche se si muovevano bene,
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rappresentavano la parte più vulnerabile della colonna: non erano in grado di combattere
in ordini molto aperti e il loro comportamento condizionava inevitabilmente quello dei
colleghi indigeni, ma di contro, secondo Mezzetti, erano più facili da manovrare e più saldi
sotto il fuoco. La vera spina dorsale delle colonne era la truppa di colore, soprattutto eritrea:
grandi camminatori, gli ascari erano in grado di affrontare marce quotidiane di 50 km ed
erano considerati ottimi combattenti, con gli “istinti belluini di una razza guerriera. Sono
perciò d’impiego sicuro e di grande rendimento” . Di negativo avevano il fatto che nelle
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lunghe marce tendevano a distrarsi e a separarsi in piccoli gruppi, fino a smarrirsi, inoltre
soffrivano molto la sete e il caldo eccessivo, a volte erano troppo aggressivi e mancavano di
senso dell’inquadramento: “[…] Il reparto eritreo, lanciato, solitamente travolge il tratto
sottile del fronte nemico contro il quale si avventa, l’oltrepassa e si disperde in un insegui-
mento spesso vano perché intempestivo e sfugge al comando dei propri capi e del comando
della colonna” .
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I libici erano l’altra componente delle truppe di colore: pari per rendimento agli eritrei,
erano più resistenti nelle marce, più sobri, più abituati alla sete e alle temperature elevate,
per Mezzetti davano preoccupazioni logistiche minori. Meno aggressivi, ma non meno
202 ottorino Mezzetti, Guerra in Libia. Esperienze e ricordi, op. cit., p. 15.
203 Ibidem, p. 50.
204 Ibidem, p. 52.
205 Ibidem, p. 42.
206 Ibidem, p 43.
207 Ibidem, p. 43.
Capitolo seCondo

