Page 106 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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Spiriti militari 57
Contraddizione forse più parvente che reale, perché solo in quel conflitto di sen-
timenti si afferma la superiorità morale di un popolo degno e capace di dominio su
territori di più bassa civiltà.
Venne la grande guerra. L’Arrighi ritornò sotto le armi allontanando da sé la possi-
bilità di farsi esonerare come ferroviere. Gli pareva che «ogni uomo sano e giovane che
non sia soldato, debba sentirsi molto inferiore al più umile e ignorante contadino che in
questo momento arrischia la propria esistenza sui campi di battaglia». L’antico caporal
maggiore (in Libia gli avevano restituiti i galloni) divenne sergente; fu promosso poi
aspirante, sottotenente, tenente.
Dopo un breve soggiorno a Bassano passò col suo reggimento nel settore di Mon-
falcone, e trascorse gli ultimi mesi della sua nobilissima vita nei feroci combattimenti
che fra il ’15 e il ’16 divamparono sulle piccole alture di quella città. Vita di trincea,
bombardamenti, combattimenti accaniti, miserie e sofferenze infinite. Ma in tutto tra-
scorre una forza indomabile, che non si disperde mai nell’orrore e nello squallore di
quella vita. Il pensiero della guerra, della vittoria e del fine militare grandeggia su ogni
altro suo pensiero privato. È una forza compressa: attende di momento in momento
di scattare oltre le barriere e i reticolati nella corsa della vittoria. «Nel nostro calendario
non vi è che un solo giorno di festa: quello della vittoria!» La frase magnanima è pro-
nunciata nel pieno orrore della guerra. S’aggrappa con più tenacia ai suoi convincimenti
e ai suoi ideali di soldato, mentre lo sforzo nemico è inteso – come sempre in guerra – a
provocare il distacco del singolo dal tutto, a suscitare il pensiero della personale salvezza,
il senso egoistico della particolare sofferenza.
Quando nell’ottobre ’15 la sua brigata, dopo aver combattuto con valore ma con
poca fortuna, è respinta sulle sue posizioni, egli piange di rabbia: gli sale su dal cuore
l’odio pel nemico:
(26 ottobre ’15). Siamo rimasti nelle vecchie posizioni dopo aver conquistato per
tre volte e tenute per un’intera nottata quelle nemiche! Ma che potevamo fare? Sono
stati compiuti atti d’un eroismo antico; d’un’epica grandezza degna di storia.
Un capitano d’artiglieria, che seguiva le azioni da un osservatorio ha detto che
assalivamo alla giapponese!…
Il nostro colonnello, ferito, ha guidato con coraggio leonino e sereno sprezzo della
morte, i tre attacchi che ci hanno sempre portato alla riconquista della maledetta
quota… Dei tre comandanti di battaglione, due sono rimasti sul campo, uno è ferito!
Non mi sarei mai immaginato di ripiegare di fronte agli austriaci! È la più grande
vergogna della mia vita! Confesso che ho pianto, pianto di dolore, d’umiliazione, di
rabbia impotente! Come me gli altri ufficiali hanno pianto; lo stesso colonnello non
ha potuto nascondere le lacrime di fronte ai gloriosi soldati, tenue avanzo del suo
bel reggimento.
Quanti vuoti tra noi! Quanti cari colleghi per sempre scomparsi! È ciò che ab-
batte, che addolora! Non siamo un popolo guerriero noi! Troppa la sensibilità della
nostra anima.