Page 12 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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Introduzione  XI


            la guerra, delusi, mortificati dal clima culturale prevalso in Italia già all’indomani dell’u-
            nificazione. Infatti, nell’ultimo scorcio del XIX secolo e nei primi anni del Novecento
            «maturò quella politica vegetativa che raggiunse l’apice – ricordava Omodeo nel maggio
            del 1920 in un articolo su «L’Educazione Nazionale» – «consule» Giolitti, di contro la
            tradizione politica del Risorgimento, una politica insomma in cui rivivevano le vecchie
            tradizioni dell’Italia serva, una politica orientata verso un nichilismo, un’anarchia fatta
            di pigrizia, d’insofferenza d’ogni vincolo e d’ogni dominio, intesa e assorta tutta nel
            momento fugace, negli egoismi più meschini, accarezzati ed elevati a forza politica».
               In siffatta delusione per il naufragio di tante aspettative travolte nella «farsa dell’in-
            finitamente piccolo», secondo l’espressione di Carducci, vi era in realtà una buona dose
            di esagerazione, ma nei primi anni del secolo queste critiche trovarono comunque una
            larga diffusione tra gli uomini di cultura. In particolare alimentarono lo sdegno per il
            tradimento perpetrato dai padri dell’eredità e del retaggio delle lotte risorgimentali tra
            i giovani nati nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento. Investita dunque di una missio-
            ne di riscatto in nome della patria, questa generazione, cui appartenne a pieno titolo
            Adolfo Omodeo, si propose di rifondare l’Italia, di assumere la guida di una nuova
            stagione, capace di orientare la politica verso altri valori. Aspirava al superamento dello
            Stato liberale, della fredda, meschina e quotidiana visione dei problemi senza alcuna
            prospettiva futura, senza l’ambizione di far rinascere il sogno garibaldino di un’Italia,
            che al cospetto delle nazioni, fosse portatrice di una civiltà nuova. «La patria nuova: è
            questo di cui abbiamo bisogno – scriveva Omodeo già nel novembre del 1911 – non la
            patria vecchia, la patria dei retori, ma la patria vivo senso, aspirazione dell’anima rinno-
            vata, ché la patria, diceva Mazzini, è la coscienza della patria. E io son figlio di Mazzini».
               In questa temperie, nella lettura assidua de «Il Leonardo», «Lacerba», «L’Unità» e poi
            nella collaborazione con «La Voce» di Prezzolini, la più autorevole tra le riviste letterarie
            d’inizio secolo, nell’incontro con filosofi e pedagogisti idealisti come Giovanni Gentile
            e Giuseppe Lombardo Radice e nell’ascolto di molti altri rappresentanti dell’intellet-
            tualità italiana, quali Gaetano Salvemini e il critico Renato Serra, si andava rinsaldando
            in Omodeo il convincimento della necessità di un profondo rinnovamento culturale e
            politico della nazione.
               I colpi di pistola esplosi a Sarajevo e il precipitare della crisi in Europa nel luglio del
            1914 gli si presentarono in tal modo come l’occasione irripetibile, il punto di svolta da
            dove partire per abbattere un regime politico antiquato e impotente che «non proiettava
            – come spiega Emilio Gentile (Il mito dello Stato nuovo. Dall’antigiolittismo al fascismo,
            Laterza, 2002) – la sua azione nel futuro e verso il mondo, perché non era spinto dalla
            fede nel primato e nella missione di civiltà dell’Italia risorta».
               Lo storico siciliano si avvicinò così all’idea della partecipazione italiana alla guerra, cer-
            to che si tornasse a spiegare la bandiera del Risorgimento tradita e lasciata cadere, mosso
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