Page 138 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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I giovinetti 89
mo il ritorno del battaglione che è ancora al fronte. Il tredici, dopo aver avuti piccoli
combattimenti, abbiamo fatto una bella avanzata…
La mia compagnia, che adesso non esiste più… fu destinata a dare l’assalto. Al
muovere all’assalto ero in testa col mio 1º plotone, senza ufficiale, perché morto il
giorno prima. Le ultime parole rivoltemi dal mio capitano furono queste: «Caro Ne-
razzini, coraggio, lei col suo plotone deve andare avanti, dopo verrò io col resto della
compagnia». Non mi feci ripetere due volte il comando. Uscii fuori dalla trincea
insieme ai miei eroi gridando: «Savoia! Avanti, bersaglieri, avanti!» Dopo una ven-
tina di passi mi voltai indietro per vedere se il mio capitano, unico ufficiale rimasto
in compagnia, mi seguiva: invece lo vidi cadere a terra. Era ferito grave. Io seguitai
avanti prendendo il comando della compagnia, e alla baionetta dopo accanita lotta
conquistammo il famoso trincerone [San Michele]. Rimasi solo con otto bersaglieri
per tre ore a difendere la posizione conquistata. In questo attacco io venni ferito. Io
sono ancora fortunato, ma quanti morti!… Come sono triste! Piango nel leggere le
sue lettere. Sono troppo affettuose.
Vorrei baciarvi e dirvi tante cose. Quando il mio capitano mi rivide ferito, mi ab-
bracciò piangendo. Ho fatto il mio dovere. L’austriaco sarà per me un eterno nemico!
Vedesse come scappavano! Sono stanco. Vi bacio tutti .
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Guarito, solo per condiscendenza al desiderio materno (assai di frequente questi
ragazzi non sentono l’ambizione del grado) frequentò il corso allievi ufficiali. Con la
brigata Ferrara espugnò il San Michele nell’agosto ’16. Ma sull’altipiano d’Oppacchia-
sella fu ferito gravemente da una granata. Agonizzò lungamente, per una sopravvenuta
setticemia, prima all’ospedaletto di Chiopris, poi a quello del seminario d’Udine. La
madre e la sorella Jole, con un permesso speciale, poterono accorrere al suo letto. La
sorella in una commovente lettera ci ha descritto l’agonia del giovinetto e la scena stra-
ziante dell’unica madre che appare nell’ospedale dei moribondi.
… Sorressi la mamma nel passaggio della scaletta di legno rustica che portava al
primo piano. Ebbi la prima emozione. Il cappellano. Quell’abito nero, quel libro di
preghiere mi serrarono la gola. Intanto fummo trattenute da lui, mentre i medici
preparavano il ferito all’incontro: vidi passare in fretta infermieri con delle botti-
glie… sentii un grido – una voce nuova che chiamava «mamma mamma», mi trovai
così – non so chi mi portò – presso il povero caro! Oh l’abbraccio che non finiva
mai! Gli occhi di tutti erano bagnati di lacrime, anche dei dottori: gli altri, i feriti,
su giacigli di paglia coperti d’un solo lenzuolo guardavano, guardavano. L’anima era
nei loro occhi. Tutti erano gravissimi. Quando, d’un tratto la voce d’un ferito disse:
«Signor cappellano, anch’io vorrei i baci di mia madre prima di morire!» Oh lo stra-
zio di quelle parole! Mamma li baciò tutti con affetto, con infinita venerazione. Due
ore dopo tre lettucci erano vuoti.
…Visse così sessantasei giorni tra la vita e la morte sempre sereno con la su-
blimità delle anime elette. «Mamma, coraggio, tanto si deve morire».
Peggiorò improvvisamente in un nuovo attacco di setticemia… Fu giudicato per-
duto. Nella lotta con la morte il suo fisico si struggeva come la neve al sole. L’ombra
di colui, che fu bello e pieno di vita, era vivificata dallo spirito sempre chiaro e
presente. Fu così che al suo valore venne concessa la medaglia d’argento. Vicino a