Page 20 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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Introduzione  XIX


            meranno i sentimenti e le speranze di tanta parte d’Italia che si lanciò in guerra per una
            più alta giustizia umana, col senso della tradizione mazziniano-garibaldina d’Italia».
               Accanto al ricordo dei caduti poco noti lo storico volle commentare le lettere degli
            intellettuali «interventisti/intervenuti» e a loro dedicò La distruzione delle speranze, un
            capitolo centrale per la comprensione della sua lettura della Grande Guerra. Apriva
            allora un’amara riflessione sull’Italia degli anni Trenta, sul fascismo e anticipava il re-
            sponso dei morti al suo angoscioso quesito: se tanto sangue versato fosse stato alla fine,
            come si era sostenuto all’inizio del conflitto «corroboratore di civiltà nuova». La risposta
            di Omodeo, netta quanto dolente già nella titolazione del capitolo, era perentoria: «la
            guerra moderna è stata universale nell’appello e ha compiuto una selezione a rovescio:
            dei giovani, dei sani, dei generosi, di chi più acuto sentiva lo stimolo dei doveri civili, la
            passione patria, la vocazione politica, i problemi universali».
               Con la perdita di un’intera generazione d’intellettuali, di una potenziale classe diri-
            gente, il lutto trascendeva quello privato delle famiglie per divenire perdita dell’umana
            civiltà a meno che «questi germogli schiantati non vengano raccolti e sviluppati in una
            nuova coscienza, in una volontà nuova orientata per diverse vie […] con una più alta
            giustizia che dia senso al loro sacrificio». Era dunque questo che gli richiedevano i morti
            con quelle lettere, con le loro voci di dolore, di gloria, di angoscia: che cogliesse il senso
            profondo di quella «mitezza strana in uomini travolti nella strage: l’aspirazione a salvare
            un più umano ideale di vita contro l’istinto nibelungico, belluino, della guerra tedesca».
               E le conclusioni di Omodeo dopo aver ascoltato in questa lunga nekyia le parole dei
            caduti erano di profonda amarezza e sconforto: quella superba gioventù che aveva vinto
            in campo aperto il nemico e salvato l’Italia non era riuscita a raggiungere l’ideale che si
            era posta come fine della guerra: «una collaborazione fra i popoli, una libera comunione
            di civiltà fra tutte le genti, una più alta dignità riserbata alle nazioni civili: un trionfo
            dell’ideale italiano-mazziniano sul mondo». Perché ora, e qui il riferimento alla situazio-
            ne coeva della politica italiana ed europea era molto trasparente, il militarismo tedesco
            pur sconfitto pareva aver contagiato i vincitori e così era stata rinnegata «la comune
            civiltà e la fede di chi morì».


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               In chiusura del volume pose una piccola appendice Gli umili, poco più di una
            decina di pagine, destinata alle «figure care dei compagni di vigilie degli ufficiali», cioè
            ai soldati semplici, ai fanti contadini, a tutti coloro che vissero la guerra come «un
            male, un castigo dei peccati, che solo la Vergine poteva deprecare […] l’umile Italia
            che sanguinò sul Carso e sulle Alpi». Selezionò un’asciutta raccolta di documenti dalla
            silloge di Leo Spitzer delle lettere dei prigionieri di guerra italiani internati nei campi
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