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Scenari Sahariani – Libia 1919-1943 “La via itaLiana aLLa guerra neL deserto”
LA MARCIA SU CUFRA
Mentre le operazioni di controinsurrezione nel Gebel si avviavano
all’inevitabile conclusione, iniziarono i preparativi per l’avanzata su Cufra, il
gruppo di oasi nell’angolo sudorientale della Libia che era l’ultima roccaforte
dei senussi. L’operazione richiese un’accurata organizzazione logistica che
non si esaurì nell’allestimento di una base di partenza a Gialo, ma incluse la
preparazione dell’itinerario con la creazione di un punto di appoggio avanzato a
Bir Zeghen, e l’approntamento del necessario a consentire l’avanzata attraverso
il deserto di autocolonne e reparti sahariani, appoggiati dai velivoli dell’aviazione
della Cirenaica. La marcia su Cufra rappresenta probabilmente il punto più alto
raggiunto dal Regio Esercito in termini di capacità di movimento in regioni
desertiche all’inizio degli anni ’30, prima dell’avvento di autoveicoli appositamente
concepiti, e della definitiva conferma di un principio fondamentale, cioè che «in
fatto di conquista coloniale una occupazione militare consiste assai più in una
organizzazione marciante che in operazioni militari pure e semplici».
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Il più vicino avamposto italiano a Cufra era Gialo, dove si trovava anche il
più vicino campo di manovra dell’aviazione della Cirenaica. In linea con i metodi
ormai consolidati di polizia coloniale, la prima mossa fu un raid intimidatorio
sull’oasi di Tazerbo, eseguito il 31 luglio 1930 da 4 Ro.1 guidati dal tenente
colonnello Lordi. Dopo circa tre ore di volo i quattro biposto decollati da Gialo
apparvero di sorpresa sui palmeti e sugli orti dell’oasi per sganciarvi 332 bombe
del tipo anti-personale e 24 caricate con aggressivi chimici. Fu a tutti gli effetti
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un’azione imperniata sull’uso dell’arma del terrore, e non a caso vi furono
impiegate per l’ultima volta delle armi chimiche, per la verità utilizzate piuttosto di
rado in Libia, ma fu anche una chiara dimostrazione della capacità degli equipaggi
107 R. GRAZIANI, Verso il Fezzan op. cit., p. 351.
108 Nel dettaglio i 4 Ro.1 sganciarono 12 bombe da 12 chilogrammi, 320 spezzoni da 2
chilogrammi e 24 granate da 162 mm tipo PDO (Piano d’Orta, dal nome della località dove
venivano caricate), altrimenti conosciute come “bombe F.Z. da 21”, in relazione al peso, 21
kg, e alle lettere sull’involucro, messe a punto verso la fine della Grande Guerra ma entrate
in produzione solo dopo il termine delle ostilità, quando si ebbe una certa disponibilità
di iprite. La carica chimica era infatti costituita da 8 litri di solfuro d’etile biclorurato, un
liquido vescicatorio dal caratteristico odore d’aglio comunemente conosciuto come iprite,
dal nome della città delle Fiandre nei cui pressi fu impiegato per la prima volta dall’esercito
tedesco nel 1917. Caratterizzato da un’elevata persistenza, nel venire a contatto con la pelle
questo aggressivo chimico causa vesciche e ustioni che possono risultare letali se la superficie
interessata è molto estesa, e altrettanto gravi possono essere le conseguenze respirandone i
vapori.
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