Page 154 - Giuseppe Garibaldi. L'Uomo. Il Condottiero. Il Generale - Atti 10 ottobre 2007
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            - ribadì Garibaldi ad Agostino Bertani il 13 dicembre 1859 - ma dominare i partiti
            tutti.” La bontà del metodo era confermata dai risultati.
               L’armistizio di Villafranca, nel luglio 1859, confermò a Garibaldi la scarsa
            affidabilità di Napoleone III. L’aveva avuto nemico dieci anni prima, quando
            difendeva la Repubblica romana; lo ritrovò callido alleato nella guerra contro
            l’Austria. Comprese però d’istinto che mettere in discussione i metodi dell’Impe-
            ratore non comportava la rinuncia agli obiettivi ultimi: imponeva una via diversa
            per realizzarli. “A Vostra Maestà - confidò Garibaldi a Vittorio Emanuele - è
            nota l’alta stima e 1’amore che vi porto; ma la presente condizione in Italia non
            mi concede d’ubbidirvi, come sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli mi
            astenni fino a quando mi fu possibile; ma se ora, in onta di tutte le chiamate che
            mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai miei doveri e metterei in pericolo la santa
            causa dell’Italia. Permettetemi, quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca.
            Appena avrò adempiuto il mio assunto liberando i popoli da un giogo aborrito,
            deporrò la mia spada ai Vostri piedi e vi ubbidirò fino alla fine dei miei giorni”
            10 : o meglio fino a quando si fosse resa necessaria una nuova “disubbidienza”,
            una iniziativa autonoma per interpretare la spinta nazionale. Per conseguire l’u-
            nificazione, l’Italia doveva fare da sé o, quanto meno, eludere la tutela dell’in-
            gombrante alleato. Agire come se Napoleone III non esistesse sarebbe però stato
            ingenuo, dissennato. Bisognava semmai legargli le mani, chiamando a soccorso
            la democrazia francese, firme illustri, figure rappresentative la cui opinione ri-
            sultasse vincolante o molto influente anche per Parigi. Occorreva mostrare di
            avere il favore dell’opinione internazionale: dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti
            d’America, ai movimenti per l’indipendenza dei popoli senza Stato (ungheresi,
            romeni, bulgari(...)): ripartire dal Quarantotto, insomma, concentrando il mas-
            simo sforzo di rinnovamento della carta politica europea sul solo caso italiano.
               È quanto accadde nella primavera del 1860, quando, dopo molte ragionevoli
            esitazioni, Garibaldi si arrischiò nella liberazione del Mezzogiorno, virtualmen-
            te conclusa col messaggio a Vittorio Emanuele da Napoli (4 ottobre 1860), nel
            quale assicurava al re che i repubblicani, “tutta brava gente” che aveva combat-



            10  Corsivo dell’Autore. Da Torre del Faro, 10 agosto 1860, in Ximenes, I. pp. 122-121. Da
               Genova, il 5 maggio 1860, all’imbarco dei Mille, tramite Biagio Caranti, Garibaldi palesò
               a Vittorio Emanuele il suo disegno: “Io non consigliai il moto della Sicilia, ma credetti
               dovere accorrere dove italiani combattono oppressori. Io sono accompagnato da uomini
               ben noti all’Italia, e comunque vada, l’onore italiano non sarà leso. Ma oggi non si tratta
               del solo onore, bensì di rannodare le membra sparse della famiglia italiana; per portarla
               poi compatta contro i più potenti nemici. Il grido di guerra sarà Vittorio Emanuele ed
               italia. io assumo la responsabilità dell’impresa, e non ho voluto scrivere al re, né vederlo,
               perché naturalmente mi avrebbe vietato di operare”. (Ximenes, I, p. 96).
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