Page 70 - Giuseppe Garibaldi. L'Uomo. Il Condottiero. Il Generale - Atti 10 ottobre 2007
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               E qui quello che colpiva non era tanto il giudizio politico, più che legittimo da parte
            d’un uomo che s’era guadagnato abbondantemente il diritto di dire la sua opinione sul-
            la nazione da edificare; quello che colpiva era il giudizio morale, sulla base del quale
            Mazzini e i suoi venivano delegittimati e messi fuori del sistema politico e del futuro
            processo d’unificazione: a chi infatti, se non ai repubblicani e al loro capo, era diretta
            la trasparente allusione agli uomini “ingannati o ingannatori”? Sarebbe partito da qui,
            qualche anno dopo, l’attacco di Daniele Manin a Mazzini, accusato di aver professato
            la cosiddetta teoria del pugnale. Un po’ troppo per gente che aveva combattuto (e, mal-
            grado Garibaldi, combatterà ancora) una battaglia non certo di retroguardia senza cede-
            re al mito di una monarchia nazionale che tale certamente non era o non era ancora.
               Tra i repubblicani non mancò chi pronunciò la parola tradimento. Mazzini, a sua
            volta, in privato si lasciò andare a sfoghi anche rabbiosi che però, secondo il suo co-
            stume, non divennero mai di dominio pubblico, per evitare di dare un vantaggio agli
            avversari e per non vanificare la speranza, certamente mal riposta, di un ritorno di Ga-
            ribaldi al suo ovile. Se preferì vedere all’origine della svolta di Garibaldi più debolezza
            che malafede, non lo fece per “buonismo”, visto che era uomo alieno da ogni meschina
            ipocrisia, ma per tenersi aperta una porta: infatti tra il 1854 e il 1858 mise in atto vari
            tentativi per riagganciare il Nizzardo, ma gli insuccessi cospirativi della metà degli
            anni Cinquanta (in Lunigiana, e poi a Genova e a Livorno) non furono un gran mezzo
            di persuasione. Ci provò anche Giovan Battista Cuneo, legato a Garibaldi sin dai tempi
            dell’esilio sudamericano e suo primo biografo: si sentì rispondere che le sorti dell’Italia
            andavano affidate a un paese in espansione e non ad un individuo, quale che potesse es-
            sere il suo peso politico . Per capire a quale realtà si riferisse basta leggere ciò che ave-
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            va appena proclamato quando aveva spiegato ad una militante mazziniana inglese che
            “in Piemonte vi è un esercito di quaranta mila uomini, ed un re ambizioso. Quelli sono
            elementi d’iniziativa e di successo a cui crede la maggioranza degli italiani” . Per rin-
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            carare la dose, dirà di lì a poco – senza far nomi - che tra i repubblicani v’erano “molti
            illusi e molti birbanti” . Per essere coerente con queste dichiarazioni non poteva che
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            finire nella Società Nazionale Italiana di Pallavicino e Manin, l’organizzazione messa
            in piedi appunto per convogliare verso la monarchia sabauda il consenso di quanti fino
            allora ne avevano diffidato o erano rimasti alla finestra: Garibaldi vi entrò nell’estate
            del 1857, e fu questo il vero colpo di grazia per le residue speranze di Mazzini.
               Come giudicare, sul piano storico, questa convergenza verso un programma dietro


            25  Lettera del 23 marzo 1857, da Caprera, in G. Garibaldi, epistolario, cit., vol. III, pp. 154-155.
            26  Lettera a Jessie Meriton White del 3 febbraio 1857, ivi, p. 151. E, alludendo a Mazzini, sog-
               giungeva: “Che l’amico vostro ci mostri lo stesso, ed un po’ più di buon senso che non ebbe
               per il passato e noi lo benediremo seguitandolo con fervore”.
            27  Lettera a Giacomo Medici del 30 maggio 1857, da Caprera, ivi, p. 158.
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