Page 403 - Carlo Alberto dalla CHIESA - Soldato, Carabiniere, Prefetto
P. 403
Prefetto di Palermo
Pentito e pazzo spesso diventano sinonimi in Sicilia. «Infatti, è la legislazione italia-
na che non solo deve garantire la sopravvivenza dei pentiti, ma impedire ad altri di
periziarli come pazzi».
In una Palermo ove si tendeva a minimizzare, se non addirittura a negare l’esistenza
della mafia intesa come struttura organizzata e gerarchizzata, il Pref. dalla Chiesa
introduceva un tema che allora sembrava impensabile: affermava cioè che il feno-
meno criminoso mafioso, ritenuto sino ad allora impenetrabile, non fosse poi così
impermeabile. Lo fece sulla base dell’esperienza personale maturata ai tempi delle
Brigate Rosse allorquando, con un lavoro paziente e meticoloso di introspezione psi-
cologica, riuscì a penetrare nella mente e nell’anima di Patrizio Peci inducendolo alla
collaborazione con la giustizia. Fu il primo «pentito» che innescò lo sgretolamento
24
del brigatismo. Ma lo faceva anche con riferimento a Leonardo Vitale , collaborante
ante litteram non creduto o volontariamente ignorato dai giudici e dall’opinione 399
pubblica dell’epoca. Allora la mafia era più un tema da romanzo che da aula di
giustizia, dicevano alcuni Magistrati, anche di rango, dell’epoca.
Sono trascorsi appena tre mesi dal suo insediamento e il Prefetto dalla Chiesa ha già
messo in agitazione il potere politico locale, ha lanciato messaggi chiari alla stampa
su quale sarà la sua linea d’azione per un contrasto a tutto campo alla mafia, ha
cominciato a mobilitare i giovani, gli operai, gli emarginati, ha imposto un potenzia-
mento dei servizi preventivi da parte delle Forze dell’Ordine per sottrarre il controllo
del territorio alle famiglie mafiose. Ora dichiara addirittura che si potrebbe tentare
di insinuare tra le file dei mafiosi il seme della dissociazione attiva.
Forse, passando in disamina tali azioni, tutte finalizzate a erodere consenso alle mafie,
unitamente alle passate esperienze operative nel palermitano (Corleone 1949 - 1950
e Palermo 1966 - 1973) durante le quali si imbatté e contrastò assai efficacemente,
soprattutto, il nascente clan dei corleonesi facente capo a Luciano Leggio, Bernardo
Provenzano, Salvatore Riina e Calogero Bagarella , appare arduo sostenere la tesi,
25
24 Leonardo Vitale, nato il 27 giugno 1941 in una famiglia mafiosa del quartiere palermitano di
Altarello di Baida, capeggiata dallo zio Giovanbattista Vitale. Ammesso formalmente in Cosa
Nostra nel 1958 partecipando all’uccisione di un campiere, si diede alla commissione di estorsioni
e omicidi fino all’arresto, nel 1972. Durante i 50 giorni di detenzione preventiva, diede evidenti
segni di squilibrio mentale e fu sottoposto a elettroshock che lo segnarono profondamente. In
quel periodo iniziarono a manifestarsi altresì marcati sensi di colpa che lo indussero, il 29 marzo
1973, a presentarsi in Questura a Palermo e ad iniziare a collaborare con la giustizia. Oltre ad
autoaccusarsi di molti crimini commessi in prima persona, iniziò a descrivere per la prima volta
l’organizzazione di Cosa Nostra, l’esistenza della Commissione, le modalità del rito di iniziazione
e la scala gerarchica di una famiglia mafiosa. Arrivò a fare addirittura i nomi di Salvatore Riina,
Giuseppe Calò e Vito Ciancimino. La prima rappresaglia di Cosa Nostra fu l’omicidio a sangue
freddo di un cugino. Ne scaturì un processo nei confronti di 49 imputati che furono tutti assolti ad
eccezione dello zio e di sé stesso. Leonardo Vitale restò in carcere sino al 1984, maturando una
forte conversione spirituale. Domenica 2 dicembre 1984, mentre rientrava a casa, insieme alla
madre e alla sorella, dopo aver assistito alla messa, fu ucciso da un sicario con due colpi di pistola
alla testa. Giovanni Falcone dirà di lui: «A differenza della giustizia dello Stato, la mafia percepì
l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà.
È augurabile che, almeno da morto, Vitale trovi il credito che merita».
25 Fratello maggiore del più noto Leoluca, fu ucciso durante la strage di viale Lazio, il 10 dicembre
1969, durante la quale un commando mafioso, composto da Bernardo Provenzano, Calogero
Bagarella, Emanuele D’Agostino, Damiano Caruso, tutti travestiti con uniformi della Pubblica
Sicurezza, e Gaetano Grado, in abiti civili (trattandosi di azione assai rischiosa, non avrebbe voluto
morire con l’uniforme da poliziotto indosso), penetrò negli uffici dell’impresa edile Moncada per
assassinare il boss del quartiere Acquasanta di Palermo, Michele Cavataio, reo di sottrarsi alle
regole che disciplinavano il funzionamento di Cosa Nostra. I killer, giunti in loco a bordo di una
Alfa Romeo Giulietta di colore blu, sotto la minaccia delle armi prendono in ostaggio Giovanni
Domè, incolpevole custode del cantiere, usandolo come scudo per entrare nell’ufficio. Secondo
alcuni collaboratori di giustizia, tra i quali lo stesso Grado, Bernardo Provenzano uccise a sangue

