Page 80 - Dalla Battaglia d'arresto alla Vittoria - La storia e le emozioni attraverso le testimonianze dei protagonisti
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                  che ci tirarono non riuscirono a prenderci. Il paese piccolo e tranquillo nelle
                  prime ombre della sera, ci accolse col conforto dell’odore di polenta al suono
                  delle campanelle delle vacche condotte alla fontana. Si chiamava Pradielis e
                  il nome non poteva riuscire più dolce alla nostra stanchezza. Trovammo una
                  casa ospitale, la padrona nulla ci chiese, subito si diede da fare per cuocere la
                  gallina. Nell’attesa, seduti su d’un sofà ampio, si osservava come trasognati il
                  fuoco accendersi, la donna spennacchiare la gallina, sventrarla e accomodarla
                  nel tegame.
                     Mi sentivo consumato e leggero come preso dal vino, avvolto da stordi-
                  menti invincibili. Incapace di calcolare le ore di assenza dal comando, mi
                  rispuntava inquietante la paura d’essere dichiarato disertore. Poi, quando la
                  padrona ci disse che era pronto, mi sedetti alla tavola, ma nel mordere la polpa
                  unta, rosolata e insipida, socchiudevo gli occhi e reclinavo il capo nel sonno.
                     Vinta la stanchezza, mi svegliai fresco e meravigliato di trovarmi in un
                  grande letto tra i miei due soldati che russavano col volto contro al cuscino.
                  Non riescivo a ricordare come fossi andato a letto. Essi dovevano avermi por-
                  tato, tolto la giacca e le scarpe. Li destai posando una mano sui loro capelli
                  caldi: «Su, presto, che bisogna raggiungere il comando, altrimenti ci dichiare-
                  ranno disertori». Mi raggiunsero in cortile, dove stavo sciogliendo la cavezza
                  al mulo. Era ancora notte e le montagne digradavano nere. Passammo vicino a
                  una casa con tutte le finestre illuminate. Dentro, grandi macchine si muoveva-
                  no e un operaio puliva con cura le spranghe di ferro a custodia d’una dinamo,
                  poi dava olio a un bilanciere che roteava veloce e silenzioso.
                     «Tutto è tranquillo qui, troverò il capo di stato maggiore sulle furie, dirà
                  che non ho eseguito i suoi ordini e che sono scappato. Saranno ancora a Hum;
                  quel colonnello, che non era affatto ferito, mi ha ingannato per giustificare
                  la sua diserzione, non dovevo credergli così stupidamente, il mio dovere era
                  di ritornare a Hum a ogni costo, invece sono andato per valli e monti come
                  per una gita. Io non ho trovato gli austriaci che mi impedissero di andare a
                  Hum. Quel colonnello fingeva di essere ferito e tutti quegli sbandati lo segui-
                  vano così fedelmente, perché avevano trovato uno col quale andavano bene
                  d’accordo. Sarò deferito al tribunale militare!» Pensavo e affrettavo il passo.
                  All’alba ci trovammo nella pianura rasente alle montagne cosparse di piccoli
                  paesi. «Ancora un giorno di marcia!» e mi riprendeva l’incubo del tribunale
                  militare senza riescire a giustificare il mio retrocedere per posti tanto lontani.


                        Giovanni Comisso, Giorni di guerra, Milano, Longanesi, 1987, pp. 139 -149.
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