Page 86 - Dalla Battaglia d'arresto alla Vittoria - La storia e le emozioni attraverso le testimonianze dei protagonisti
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                  i soldati noi li abbiamo visti al fuoco, sono sempre gli stessi, quelli che hanno
                  vinto poche settimane fa al Chiapovano, quelli che hanno strenuamente resi-
                  stito al Na-Kobil. Ma lassù noi eravamo vittoriosi, saldamente piantati in terra
                  nemica, animati dalla baldanzosa fiducia della nostra superiorità: qui siamo
                  dei vinti, e non si vissero trenta mesi in campo per ignorare l’influsso che i
                  fattori morali esercitano sulla combattività delle schiere.
                     Il primo panico si ebbe poco dopo le quattordici. Sentiamo un tumultuare
                  lontano e crescente, uno strepito di ruote, un calpestio di moltitudine, e dalla
                  gola che si apre in alto fra due catene di colli, vediamo sboccare e precipitarsi
                  la valanga. Vengono giù a stormo, urtandosi, frammischiandosi, ondeggiando
                  come un campo di grano frustato dalla bufera, non più soldati, turba, non più
                  uomini, mandria; nelle prime file occhi folli, visi stravolti e disperati, bocche
                  urlanti di terrore; ufficiali, fanti, artiglieri, cavalli, cannoni. Ad un cenno del
                  nostro capo ci stendiamo in sottile catena sulla strada, dieci o dodici ufficiali
                  con le rivoltelle in pugno, dietro a noi un esiguo drappello di carabinieri, e una
                  trentina di scritturali, piantoni, attendenti, quasi tutti senz’armi: e attendiamo
                  l’urto.
                     Ma l’urto non viene. All’appressarsi della prima ondata di fuggiaschi, il ge-
                  nerale intima un alt che domina tutti i clamori. La prima fila si arresta, rifluisce
                  sui sopravvenienti, la massa ha un rigurgito, due o tre oscillazioni, si arresta.
                     — Che è avvenuto? perché avete abbandonato i posti?
                     I soldati, sgomenti, tosto ripresi dal pugno ferreo della disciplina, tacciono.
                     Il generale chiama gli ufficiali e li interroga.
                     — Abbiamo ricevuto ordine di ripiegare — rispondono unanimi.
                     Da chi? non si riesce a saperlo. L’ordine, volando di bocca in bocca, è corso
                  lungo le trincee come il fuoco lungo una miccia. Sapremo più tardi il motivo
                  di questo enigma, adesso l’importante è di riordinare, rianimare queste truppe
                  — è un battaglione e mezzo che si agglomera intorno a noi — e rioccupare il
                  tratto di linea sguarnito prima che il nemico v’irrompa.
                     — Dietro front! — urlano cento voci.
                     Ma, mentre noi trattenevamo l’avanguardia, il grosso e la coda della co-
                  lonna, non potendo avanzare sulla strada, ha dilagato da una parte e dall’altra,
                  sparpagliandosi nei campi. Carabinieri e ufficiali danno la caccia ai fuggenti
                  e ne riconducono il maggior numero. Svanito il panico, i soldati stessi hanno
                  vergogna dell’accaduto, e insistono per convincere noi che non ebbero inten-
                  zione di scappare, ma in buona fede credettero che ci fosse l’ordine di ritirata:
                  sottufficiali e graduati si fanno in quattro per ricostituire il proprio reparto, e
                  il battaglione riprende il cammino delle trincee, se non con lo slancio che solo
                  l’esaltazione d’un fulmineo assalto può infondere, con la rassegnata ubbidien-
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