Page 101 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
P. 101
Il RegIo eseRcIto e le opeRazIonI dI polIzIa colonIale In afRIca (1922-1940) 101
bolezza dell’avversario, ma neanche sottovalutare le difficoltà dell’ambiente, che alcuni uf-
ficiali italiani seppero superare brillantemente con l’utilizzazione di tutti i mezzi disponibili
(e una durezza verso le popolazioni consueta in tutte le guerre coloniali)” . Perfino Angelo
255
Del Boca, il più aspro critico del colonialismo italiano, è costretto ad ammettere che “anche
gli ufficiali erano migliori, più preparati, più aggressivi, alcuni anche propensi a studiare
l’avversario, anziché tributargli soltanto disprezzo” . Emilio De Bono, durante gli anni del
256
suo governatorato in Tripolitania, ebbe del resto modo di affermare, a ragion veduta, che
“l’Ufficiale coloniale non s’improvvisa nel giro di pochi mesi, ma si forma attraverso dure
prove ed accurate selezioni” . Il fascismo non fu abbastanza lungimirante nel compren-
257
dere le doti di questo sparuto gruppo di ufficiali e nel valorizzarle: se così fosse stato fatto
probabilmente si sarebbe migliorato il livello medio del Regio Esercito, e la loro esperienza
si sarebbe rivelata preziosa nel Secondo conflitto mondiale. Niente di tutto ciò avvenne.
Fatte tali premesse, non bisogna dimenticare che a questo brillante gruppo di ufficiali,
se ne contrapponeva un altro di livello mediocre: molti, soprattutto di rango inferiore, non
erano all’altezza del compito loro affidato. Nel 1926 in un promemoria redatto a Roma
negli uffici del ministero delle Colonie si diceva che i requisiti per il servizio in colonia non
erano più così rigorosi come in passato e la maggior parte di coloro che vi si recavano erano
ufficiali di complemento o volontari in cerca di un miglioramento economico. Per ovviare
a quella situazione, veniva chiesto di diminuire il numero degli ufficiali di complemento
e soprattutto di accettarne l’idoneità prima di mandarli in Africa, raccomandando poi un
miglioramento della retribuzione e l’avvicinamento delle famiglie. Il suggerimento era che
i giovani ufficiali venissero mandati in colonia dopo almeno due anni di servizio in patria,
che il servizio coloniale fosse finalizzato al comando di reparti e mai a incarichi sedentari o
di carattere civile, e che avesse una durata di due anni, con possibili estensioni annuali fino
a un massimo di 5 o 6 anni di servizio continuativo, con l’opzione di tornare in colonia
dopo 12 o 24 mesi di rimpatrio. Era poi necessario istituire appositi corsi di formazione e
sviluppare nelle scuole militari un’attività di informazione che facesse capire che cosa real-
mente fosse il servizio in colonia. A queste proposte lo stato maggiore aveva risposto che
non era possibile, per ragioni di organico, prevedere un periodo di servizio obbligatorio per
gli ufficiali , e che non si poteva premiare il servizio in colonia rispetto a quello in patria:
258
il personale impiegato sul territorio metropolitano, ed era la maggioranza, non lo avrebbe
capito. Ciò che si poteva fare, era migliorare il livello degli ufficiali in generale, diminuendo
per l’ambiente coloniale, ma di ampio respiro, a partire dallo scritto del 1864 del generale Pallavi-
cini sulla repressione al brigantaggio. Per un quadro più ampio e meglio documentato si veda luiGi
GoGlia, Popolazioni, eserciti africani e truppe indigene nella dottrina italiana della guerra coloniale, in
“Mondo Contemporaneo”, n. 2, 2006, pp. 5-54.
255 Si veda GiorGio rochat, Le guerre italiane in Libia ed in Etiopia dal 1896 al 1939, op. cit., p. 35.
256 anGelo del Boca, Guerriglia anti-italiana e controguerriglia in Libia e nel Corno d’Africa, op. cit., p.
88.
257 Relazione sulla seconda fase operativa, al Ministro delle Colonie firmato De Bono del 15 maggio 1928,
AUSSME, Fondo L-8, busta 156, fascicolo 10.
258 Per avere una rotazione completa in alcuni corpi ci sarebbero voluti anni.

