Page 402 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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           contesto l’intervento del mezzo aereo rimaneva essenziale per scovare e fissare sul terreno
           l’avversario dando il tempo ai reparti coloniali di arrivare sul posto, riproponendo modalità
           d’azione ormai ben note.


           Gli aviosbarchi

              Un capitolo particolare delle operazioni aeree in Etiopia è rappresentato dagli aviosbar-
           chi che caratterizzarono gli ultimi mesi del 1936, permettendo di estendere rapidamente
           l’influenza italiana alle regioni occidentali del Gimma, dello Uollega e dell’Ilù Babor, lonta-
           ne dalle principali direttrici d’avanzata, e di modificarvi una situazione resa molto delicata
           dalla presenza degli armati di ras Immirù, il governatore del Goggiam fuggito dopo le
           sconfitte subite dalle armate etiopiche sul fronte settentrionale, e dalla vicinanza della fron-
           tiera con il Sudan anglo-egiziano. Il tema dello sbarco aereo, come si diceva al tempo, era
           da poco entrato nel dibattito dottrinale. Nel 1935, sulle pagine della rivista aeronautica, il
           maggiore Vincenzo Biani, un ufficiale pilota che aveva preso parte all’ultima fase delle ope-
           razioni in Libia, aveva sviluppato l’argomento sulla base di questa sua esperienza, vedendo
           in un tale impiego del mezzo aereo un ulteriore strumento da utilizzare per il controllo del
           territorio, a integrazione delle modalità di intervento che rappresentavano l’essenza stessa
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           dell’aeronautica . Negli scenari maggiormente dinamici, nei quali la manovra tendeva
           ad avere il sopravvento, la cosa era fattibile date le potenzialità dei moderni velivoli da
           trasporto passeggeri o da bombardamento e in alcuni teatri operativi, in particolare nelle
           colonie, si poteva pensare a “operazioni di sbarco dagli aeroplani in più grande stile, con
           compiti propri e completamente indipendenti dai movimenti delle forze di terra”. Nelle
           operazioni coloniali si aveva infatti un’enorme sproporzione tra il territorio da controllare
           e le forze disponibili, cosa che richiedeva un’organizzazione offensiva-difensiva basata su
           pochi centri dai quali poter intervenire con la massima rapidità in ogni direzione. Anche
           così però l’avversario, sfruttando la conoscenza del terreno e una maggiore mobilità, era
           spesso in grado di accettare o rifiutare il combattimento a suo piacere, come tante volte
           era avvenuto durante la riconquista della Libia. In questo scenario il ruolo dell’aeronautica
           diventava fondamentale, dal momento che essa sola poteva disperdere le forze avversarie
           prima ancora che entrassero in campo e infliggere loro pesanti perdite senza subirne o
           quasi, ma se il bombardamento rimaneva comunque la forma tipica di impiego del mezzo
           aereo, a questa potevano e dovevano “accompagnarsi gli sbarchi dagli aerei per continuare
           l’opera distruttiva fatta dalle bombe sulle formazioni di armati, per occupare punti strategi-
           ci di vitale importanza, per distruggere e saccheggiare i focolai della resistenza”. In azioni di
           questo tipo era opportuno impiegare reparti coloniali, più adattabili all’ambiente e meno
           esigenti dal punto di vista logistico, tenendo presente che un migliaio di uomini, una forza
           considerevole in qualunque contesto coloniale, poteva essere trasportato in una singola
           sortita da 30 o 40 velivoli con il necessario per vivere e operare per 4 o 5 giorni, e poteva
           poi essere rifornito per via aerea. Poco più di un anno dopo fu un altro ufficiale pilota, il

           938 vincenzo Biani, in “Rivista Aeronautica” 7/ 1935, pp. 1-7.

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