Page 480 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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           rigoroso controllo della popolazione locale, che diventava una vera e propria forma d’in-
           ternamento per pastori e contadini che vivevano fuori dai centri abitati, continuavano le
           perlustrazioni e i pattugliamenti in modo tale da intercettare formazioni di briganti. Questi
           metodi, nonostante ispirassero poca fiducia alla stessa truppa, come ammetteva Mariotti,
           furono in realtà molto efficaci, infatti, “non si videro più in Capitanata le scorazzate delle
           grosse bande” e “ i gruppi di malandrini del luogo” si assottigliarono sempre più; in sostan-
           za “la sapiente e straordinaria energia del generale Pallavicini veniva ottenendo risultati di
           disgregamento e distruzione del flagello ogni giorno più strepitosi” . Sicuramente il fattore
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           principale dei grandi successi di Pallavicini fu l’aver intuito l’importanza di accettare la col-
           laborazione del capo brigante Giuseppe Caruso, grazie al quale lo stesso Crocco fu costretto
           a rifugiarsi in territorio pontificio.
              Il Mariotti, a differenza del capitano Massa più interessato alle tecniche di guerriglia
           dei briganti, riportava alcune interessanti osservazioni di tattica, tratte, in realtà, dalla pro-
           pria esperienza personale in Capitanata nel 1862-1865, dalle quali l’autore cercava però
           di ricavare i primi insegnamenti utili per le operazioni di controguerriglia nelle colonie,
           allora attuali. L’occasione gli venne fornita dal resoconto del combattimento avvenuto l’11
           dicembre 1862, quando il capo banda Caruso, con più di circa 350 briganti a cavallo,
           attaccò la 13ª Compagnia del IV Battaglione del 55° Reggimento fanteria, costituita, in
           quel momento, da 2 ufficiali (il comandante, capitano Montelatici e lo stesso Mariotti
           allora sottotenente), 55 uomini di truppa, 2 carabinieri e 2 guide armate esperte del luogo,
           mentre, con funzioni di scorta del commissario di leva, era in movimento da Torremaggio-
           re a Castelnuovo di Daunia . Sotto l’improvviso attacco dei briganti, la 13ª Compagnia,
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           “traendo partito dalle piccole e basse boscaglie” fu repentinamente schierata “in sei gruppi
           intervallati” che si proteggevano a vicenda e aprendo all’istante un fuoco nutritissimo,
           “arrestò l’impeto della carica”. Dopo aver constatato l’impossibilità di tenere quella posi-
           zione “appoggiandosi lentamente, sempre continuando il fuoco”, la compagnia arrivò ad
           occupare “con gruppi, mantenutosi tutti compatti, il solo rialzo di terreno esistente nelle
           vicinanze” che “possedeva un discreto dominio sulla campagna e sulle bande sparsevi”. Da
           quella posizione il nutrito e concentrato fuoco di fucileria dei fanti del 55° infliggeva ingen-
           ti perdite ai briganti, rompendo l’accerchiamento da loro stretto. A quel punto, tratti fuori
           dalla linea quaranta uomini e lasciati gli altri con i due carabinieri a protezione, lo stesso
           Mariotti, poiché il capitano Montelatici era stato ferito, guidava l’attacco alla baionetta che
           metteva in fuga i nemici. I briganti avevano perso perché avevano continuato a far fuoco
           “rimanendo montati ed anche in movimento, quindi un fuoco completamente inefficace;
           riluttanti od ignari della tattica che consiglia una parte dei cavalieri appiedati per il fuoco
           fermo e ben mirato, ed altra parte in sella per la protezione e pronta alla ricarica” . La
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           “tattica brigantesca” era in sostanza una forma di guerriglia che “preferiva le scariche dalle
           imboscate e la fuga; il sorprendere e tagliare a pezzi, con sevizie orrende, qualche piccolo


           40  Ibidem, p. 255.
           41  Ibidem, pp. 243-245.
           42  Ibidem, pp. 244.
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