Page 498 - L'Esercito alla macchia - Controguerriglia Italiana 1860-1943
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           ne logistica pesante e inadatta all’ambiente montuoso, solo i bersaglieri, anche secondo
           Molfese, si dimostrarono all’altezza della situazione, mentre i reparti di cavalleria impie-
           gati su terreno montuoso e boscoso non diedero risultati soddisfacenti, ma al contrario
           furono efficaci per contrastare le grandi bande che infestavano le pianure della Capitanata
           e l’altopiano delle Murge. La soluzione migliore dal punto della dottrina dell’impiego fu
           comunque “la cooperazione con le armi appiedate, perché la forza d’urto della cavalleria sta
           quasi tutta nell’impiego della sciabola e della lancia, mentre assai scarsa era la potenza di
           fuoco” . La risposta militare, secondo Molfese, non avvenne attraverso l’elaborazione di
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           un’efficace dottrina di controguerriglia per l’utilizzo delle forze di repressione, ma in un’or-
           ganizzazione di controllo del territorio basato su comandi di zone militari, che, per volontà
           di Cialdini, iniziarono a funzionare dal 1861. I comandi di zona, che si affiancavano alla
           parallela struttura militare territoriale, avevano funzioni operative e “presupponevano una
           notevole autonomia dei comandanti locali e quindi corrispondenti doti di iniziativa che
           potevano spingersi fino alla creazione di sottozone e a particolari raggruppamenti o me-
           todi di impiego delle forze”. Ma in realtà quella griglia operativa lasciava ancora molte
           possibilità di manovra alla guerriglia contadina che aveva imparato a sfruttare il controllo
           non sempre efficace nei territori di confine tra zone militari in cui non sempre era chiaro
           a quale comandante appartenesse la giurisdizione. La Marmora, successore di Cialdini ri-
           specchiava i limiti delle capacità dei vertici militari di pianificare un offensiva articolata,
           anche perché lo stesso La Marmora comprese “che il brigantaggio era imbattibile sul mero
           terreno militare e che quindi era opportuno temporeggiare per risparmiare le forze” : di
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           qui il suo attesismo, detto appunto “lamarmorismo”. Il giudizio sostanzialmente negati-
           vo sull’operato del successore di Cialdini contrastava con il riconoscimento della capacità
           del generale Pallavicini che seppe utilizzare in modo spregiudicato gli informatori come il
           capobanda Giuseppe Caruso di Atella . Lo sforzo comunque fu immenso, anche perché
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           le truppe erano impiegate non solo nelle operazioni di controguerriglia, estremamente lo-
           goranti a causa delle incessanti perlustrazioni, delle lunghe marce in un ambiente ostile,
           “sotto la minaccia invisibile ed incombente di agguati mortali”, ma anche nei servizi di
           presidio, di scorta che portarono all’usura dei reparti dell’Esercito, causa non ultima degli
           insuccessi della guerra del 1866. Del resto la situazione sanitaria rispecchiava quella difficile
           situazione con un altissimo numero di ammalati e decessi per malattia. I dati sulle perdite
           fornite dal Molfese sono, ad oggi, gli unici fondati su valide fonti documentarie e parlano
           per l’Esercito, dal 1861 al 1864, di 465 caduti, 18 dispersi e 190 feriti, cifre però ritenute
           dallo stesso autore assolutamente lontane dalle reali perdite, assai più elevate.
              Nel suo giudizio finale comunque Molfese riconobbe che:
                 “l’Esercito apparve e in talune estreme contingenze lo fu realmente, il solo baluardo
              del regime unitario e persino dell’ordine sociale costituito, contro la minaccia di una totale
              anarchia a cui avrebbe condotto la vittoria di una sollevazione contadina, priva, in realtà di


           140 Ibid., p. 179
           141 Ibid., p. 185.
           142 Ibid., p. 316-322.
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