Page 185 - La quinta sponda - Una storia dell'occupazione italiana della Croazia. 1941-1943
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Memoria dell’occupazione


             ribadisce in un successivo incontro Pavelic, poco prima di aprire con noncuranza
             un paniere di occhi umani inviatigli dai suoi sostenitori. Un quadro truce, grangui-
             gnolesco, quasi certamente inventato dalla fervida fantasia di Malaparte, ma che
             esprime efficacemente l’essenza di un tiranno tragico e grottesco.




             I generali


                “Fra quanti si adoperarono per l’edificazione di un impero in Jugoslavia, i mi-
             litari furono i meno entusiasti”. Con queste parole lo storico britannico Burgwyn,
             autore di uno studio sulla occupazione italiana dei Balcani, riassume l’atteggia-
             mento delle alte gerarchie militari italiane  di fronte alla decisione di Mussoli-
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             ni di intervenire nel caos croato per riaffermare il prestigio italiano nei Balcani .
             Del resto anche i più radicali dei nazionalisti italiani non avevano mai ipotizzato
             una occupazione nei Balcani che andasse oltre la fascia costiera ed il suo limitato
             entroterra, che per la Dalmazia doveva coincidere pressappoco con la displuviale
             delle Alpi Dinariche. Quest’ultima frontiera, reclamata dall’Italia già alla fine della
             Grande Guerra, era stata tracciata più per le esigenze della Marina, ansiosa di pro-
             teggere gli ancoraggi di Spalato, Sebenico e Zara, che non per quelle dell’Esercito.
             L’atteggiamento dei generali italiani coinvolti nell’occupazione, che si può evince-
             re tanto dalle loro memorie quanto dalle relazioni del periodo di guerra, fu quindi
             generalmente improntato ad amaro realismo: a differenza dei loro colleghi in Africa
             all’orizzonte dei loro sforzi non c’erano nessuna Alessandria e nessun Canale di
             Suez da conquistare, solo una terra ostile e impenetrabile abitata da genti ostili e
             impenetrabili che agli italiani sembravano impegnate principalmente a massacrarsi
             fra loro.
                Oltretutto la guerra di contro-insurrezione che avrebbero combattuto era di un
             tipo che solo pochi conoscevano, contro un nemico, la sovversione comunista, che
             la propaganda fascista aveva dipinto con le tinte cupe di una cospirazione mondia-
             le, ma che fisicamente si incarnava negli irriducibili partigiani jugoslavi e nei loro
             capi, i “duri” del partito comunista jugoslavo, temprati dalla clandestinità in patria
             e dall’esilio nell’Unione Sovietica.
                Il modo in cui i generali italiani si rapportarono al loro incarico di repressori
             e custodi dell’ordine variò quindi a seconda del loro grado di comprensione della
             guerra che stavano combattendo.


                Il generale Mario Roatta fu il più famoso degli alti gradi italiani che parteciparo-


             17  BURGWYN J., L’Impero sull’Adriatico, cit., p. 327.

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