Page 202 - La quinta sponda - Una storia dell'occupazione italiana della Croazia. 1941-1943
P. 202
La “quinta sponda “ storia dell’occupazione italiana della Croazia.
Posto dunque che la questione è molto dibattuta, su di essa possono tuttavia
affermarsi, a settanta anni dai fatti, alcune cose non controverse.
Il fatto che da parte italiana vi sia stata una repressione dura, a tratti durissi-
ma, dell’attività partigiana è certo, come lo è il fatto che gli eccessi che in essa si
compirono furono in larga parte ordinati e legittimati dagli ordini dei comandi e
autorizzati, per scritto, dallo stesso Mussolini.
Alcuni dei crimini, come le condizioni dei prigionieri in taluni campi o le oc-
casionali rapine ai danni della popolazione, non furono frutto invece di una azione
preordinata, ma della disorganizzazione o della azione dei singoli, cosa che in ogni
modo non ne mitiga la gravità.
Allo stesso tempo tuttavia, è necessario isolare anche due altre questioni senza
le quali il quadro della guerra italiana nello Stato Indipendente Croato, come in tutti
Balcani, è parziale e dunque non esaustivo: la natura della violenza commessa e la
“legittimità percepita” dai suoi autori.
La maggior parte degli storici sono concordi nel ritenere che la violenza italiana
fu, effettivamente, una violenza “reattiva” e non “preventiva”, come furono invece
quella tedesca e croata. Per ciò che riguarda la Croazia, sia nelle zone dove l’oc-
cupazione non era inizialmente prevista, Bosnia occidentale ed Erzegovina, sia in
quelle “annesse”, la Dalmazia e il fiumano, le rappresaglie italiane iniziarono solo
dopo i primi grossi attacchi partigiani, nell’autunno-inverno del 1941, e divennero
frequenti nel 1942, crescendo di intensità mano a mano che la guerra anti-partigia-
na aumentava.
La questione su chi iniziò la spirale della violenza è stata ritenuta a lungo im-
portante, tanto che diversi autori jugoslavi presentano gli attacchi partigiani come
reazione alle misure di violenta italianizzazione portate dal Regio Esercito. Una
tale giustificazione tuttavia potrebbe valere, e con qualche forzatura, solo per i ter-
ritori annessi, e non per la “seconda” e “terza zona”, dove invece i funzionari civili
italiani, tanto detestati dai comandi militari, non misero piede. Gli stessi coman-
danti partigiani jugoslavi non si mostrarono del resto mai particolarmente reticenti
al riguardo nelle loro memorie: la truculenza delle uccisioni di ufficiali, fascisti e
carabinieri era uno strumento della guerra che stavano combattendo e serviva a
scavare un solco fra i soldati, spesso rimandati liberi se catturati, ed i loro superiori
e colleghi. Essa era soprattutto utile a scatenare le reazioni delle truppe occupanti
in modo da separarle dalla popolazione civile, nei confronti della quale, occorre
aggiungere, i partigiani agivano con non minore durezza in casi di mancata colla-
76
borazione .
76 I partigiani adoperarono la violenza diffusa e sistematica come arma, anche politica, al pari
degli altri. Edvard Kardelj, luogotenente di Tito, scriveva “In guerra la distruzione di interi
villaggi non deve spaventare. Dal terrore nascerà la lotta armata”. J. BURGWYN, L’Impero
202 Capitolo nono

