Page 245 - Missioni militari italiane all'estero in tempo di pace (1861-1939)
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            dell'onorevole De Marinis, socialista ma anch'egli su posizioni "eretiche" rispetto
            al suo gruppo, il quale non soltanto invocava un'ampia partecipazione alle iniziative
            commerciali e industriali in Cina, ma una "divisione navale" stabilmente ormeggiata
            nel  mar Giallo e l'affitto della baia di  Nimbrod quale "deposito di carbone" per
            99 anni. Non si trattava di alcuna velleità colonialista: "( ... ) si rassicuri l'onorevole
            Guicciardini, e si rassicuri la Camera" aggiunse verso la conclusione uno sprezzante
            De  Marinis  "cogli  uomini  egregi  che  stanno al  potere,  non  c'è  pericolo alcuno
            che una politica di  espansione  si  faccia  in  Cina"(78).  La  proposta di  De  Marinis
            venne  quindi ripresa da Luigi  Luzzatti,  che  chiese  esplicitamente al  Governo se
            fosse  suo intendimento di  stabilire  uno o  più settlements  nell'Impero di  mezzo.
            Le continue evocazioni di un tornaconto territoriale quale compenso della spedizione
            convinsero il rudiniano Bonin ad intervenire, evocando le due correnti di pensiero
            della  politica europea in  Cina.  La  prima era di  coloro che,  negando alla  "razza
            gialla" qualsiasi possibilità di collaborazione con l'Occidente ipotizzava una "sovrap-
            posizione" anche violenta degli europei sui cinesi: "È questa la dottrina di coloro
            che  raccomandano  le  occupazioni  costiere  che  debbono servire  di  preludio alla
            spartizione,  più  o  meno  larvata,  delle  diciotto  provincie  di  cui  si  compone  la
            Cina propriamente detta,  fra  le  potenze  interessate".  L'altra  corrente prevedeva
            viceversa  una  conquista commerciale,  che  comportasse  un  reciproco  beneficio,
            anche per i cinesi attraverso un recupero organizzativo, sociale e morale del loro
            immenso stato: "Questo", aggiungeva Bonin  "rispettandosi l'integrità dell'Impero
            e  la  sua  indipendenza".  Il  deputato  non faceva  mistero  della sua simpatia verso
            questa  seconda  soluzione,  anche  perché  "la  Cina  non  si  conquista"  e  la  stessa
            spedizione  internazionale,  che  poteva  controllare  soltanto  il  territorio  coperto
            dalla propria artiglieria, lo aveva dimostrato. "La sola buona politica nell'Estremo
            Oriente  è  quella  della  politica  commerciale"  aggiungeva  Bonin  "ed  io  me  ne
            rallegro perché credo sia quella che convenga meglio anche ai casi  nostri, ed alle
            nostre  condizioni".  L'esponente  della  destra  concludeva  il  suo  intervento
            rammentando che le  proposte di  De  Marinis e di  altri avrebbero riproposto per
            l'Italia  quella  politica  avventurosa  nata  "( ... )  non  tanto  nella  coscienza  che
            questa  politica  rispondesse  ad  un  nostro  vero  interesse,  quanto,  per  un  certo
            istinto d'imitazione, per fare quello che fanno gli aItri, nel timore che lo astenerci
            noi da un'impresa alla quale partecipavano altre potenze, fosse  un diminuirci da
            noi stessi,  fosse  un  abdicare alla  nostra posizione di  grande potenza"(79).
                 Il  dibattito si concluse il  14 giugno 1901 con l'intervento del Ministro Giulio
            Prinetti, il  quale rispose a tutte le interpellanze riassumendo gli obiettivi raggiunti
            con la spedizione in  Estremo Oriente. Anzitutto, i negoziati erano giunti ormai al
            termine e il movimento di rimpatrio del contingente italiano era gia iniziato. L'Italia
            aveva  firmato  con  Germania  e  Inghilterra  un  accordo  di  "disinteressamento
            territoriale" circa il  Celeste impero e si  era limitata a predisporre un settlement a
            Tien-Tsin,  su  concessione  del  governo  di  Pechino.  "In  complesso"  aggiunse  il
            Ministro degli  Esteri  "io non credo, o signori, che  l'Italia abbia a dolersi  di  aver
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