Page 62 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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Il retaggio dei morti  13

            1.  Ritorna frequente nelle lettere dei combattenti la nota amara e sprezzante per le corrispondenze di guerra. Sopratutto
              inaspriva i soldati la falsificazione della loro psicologia, come di gente che in guerra si divertisse e ci pigliasse gusto,
              né più né meno che ad uno sport. Questo pareva un’offesa alle loro sofferenze e al loro dolore, e quasi un invito ai
              rimasti a dimenticarli. E contribuì non poco alla formazione della crisi di disperazione che si rivelò nell’autunno
              del ’17, quando il soldato si credette un dannato a morte fra l’indifferenza cinica del paese. Anche le parole vane si
              scontano a caro prezzo! Trascelgo, fra le molte, la protesta più sintetica, quella di Claudio Calandra, il figlio dello
              scrittore Edoardo Calandra, un soldato degno del vecchio Piemonte: «(23 ottobre ’16). […] Quello che fa veramente
              schifo è quella loro ostinatezza a voler descrivere la guerra come cosa poetica, fatta di poesia e di sentimento, anziché
              di sangue, d’orrore e di sofferenze inaudite. Io sono un disgraziatissimo pittore fallito, ma, nell’anima, artista quanto
              qualunque gazzettiere, e ti assicuro che nella guerra non ci ho trovato nulla di eccessivamente poetico: forse perché
              io sono sempre stato in trincea, e i signori reporters se ne stanno nei lontani osservatorii. Dipende dal punto di vista.
              Quando una granata scoppia in un cimitero, Barzini dice: “che le croci s’inchinano al suo passaggio”, ma non dice
              che i cadaveri in avanzatissima putrefazione volano per aria a brandelli e appestano col puzzo loro Dio sa quanti
              chilometri di trincea. Dov’era lui, il fetore non si sentiva; dov’eravamo noi, non si poteva respirare» (In memoria di
              Claudio Calandra, Roma s. a. [ma 1918], p. 30).
            2.  Scrivevo ciò già prima del nuovo risveglio della letteratura di guerra iniziatosi coll’apparizione del libro del Remarque.
            3.  In questo studio m’atterrò al principio di occuparmi di pubblicazioni postume, per evitare ogni discussione con
              possibili ambizioni letterarie. Farò eccezione per le lettere degli umili.
            4.  Mi avvalgo della collezione di B. Croce, e in parte di quella vastissima della Biblioteca del Risorgimento di Roma,
              messa a mia disposizione, con squisita cortesia, dal professor Mario Menghini. Insieme col Croce ed il Menghini sento
              il bisogno di ringraziare quanti (non faccio l’elenco dei nomi per non dimenticar qualcuno) ebbero la bontà di farmi
              avere materiali editi ed inediti.
            5.  Una vastissima raccolta di lettere inedite si trova nel Museo del Risorgimento di Milano, a quanto mi comunica il
              conservatore professor A. Monti. Ma lo studio di queste lettere non è ancora consentito.
            6.  Una ricca raccolta di lettere di nostri soldati la dobbiamo al dottor Leo Spitzer, il quale, come censore postale austriaco
              per le corrispondenze in lingue romanze, raccolse i documenti più caratteristici dal punto di vista linguistico e da
              quello psicologico nel volume: Italienische Kriegsgefangenbriefe, Materialien zu einer Charakteristik der volkstümlichen
              italtenischen Korrespondenz, Bonn 1921. Di questa silloge (che è nella collezione del Croce) ci occuperemo in
              appendice [ora Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918, Bollati Boringhieri, Torino 2014].
            7.  Valga un esempio: nella citata silloge dello Spitzer, pp. 195 sgg., abbiamo una scelta di lettere di disertori italiani
              nel campo di Theresienstadt: la scelta essendo stata fatta da un nemico è fuori del sospetto di tendenziosità italiana.
              Eppure nulla di più insignificante di quelle lettere: attestano solo il più banale istinto di conservazione: nulla hanno da
              dire allo storico. E se possedessimo tutti i diari degl’imboscati, non ci direbbero nulla, perché nulla storicamente essi
              han creato. Non troveremmo neppure il lirismo della poltroneria, che è invenzione di drammaturghi.
            8.  Cfr. per es. il seguente passo di Benedetto Soldati, Lettere e ricordi, Saluzzo 1919, pp. 22-23: «(18, XI, 1915, da
              Piacenza). … Qui nessuno sa che sono volontario, credono tutti, o quasi tutti, che ho fatto domanda di diventare
              ufficiale per salvarmi dal pericolo di portare lo zaino. Ed io mi son guardato sempre dallo smentire siffatti giudizi,
              perché ne avrei fatto nascere un altro peggiore: che io sono un pazzo e un seccatore. Meglio passare inosservati,
              che essere accolti con un risolino di scetticismo». Ed Elia Begey (In memoria dell’avv. Elia Ernesto Begey, Torino
              1916, pp. 43-44) svolge lo stesso sentimento con calore religioso: (6 agosto ’15, alla sorella Maria). … In fondo,
              alla  guerra  ci  si  dovrebbe andare come ad  un  rito  in  cui  tutti  possono  essere  chiamati  ad  un  sacrificio;  ci  si
              dovrebbe andare con l’anima pura e libera da ogni men che nobile pensiero. Ora questo non si riscontra sempre,
              ed io comprendo che uomini come Vajna abbiano potuto sentirsi soli spiritualmente. «Anch’io nel mio modesto
              idealismo e sentimentalismo mi sento talora un po’ isolato. E così sogno tutto solo guardando le stelle cadenti
              la sera e ripetendomi qualche bella cosa che io abbia letta e che abbia trovato rispondenza nell’anima mia. Con
              questo non mi credo niente più degli altri e sono convinto che mi ci vorrà molto sforzo per conservare in mezzo
              ai futuri eventuali pericoli la calma e la serenità dello spirito». Nel suo diario questo motivo del pudore e della
              solitudine spirituale ritorna nelle pagine bellissime ch’egli dedica ad un collega morto sotto una valanga, e che mi
              piace riprodurre integralmente: pp. 78-79: «Ricevo l’incarico di cercare l’indirizzo del mio amico e vedere a chi
              sia più opportuno mandare il triste annunzio. Ci siamo accorti che, pur essendogli amici, ignoravamo tutto di lui.
              Si scherzava molto tra noi; ognuno parlava anche della propria vita così di sfuggita, ma erano solo cose esteriori;
              esiste sempre una istintiva ritrosia a parlare di ciò che ci è intimamente più caro. Sfoglio la corrispondenza, ma
              sono intimidito. Non oso penetrar in quella piccola vita ignota. L’amico mi appare subito diverso da quello che
              conoscevo. Lo sapevo buono, meglio, intuivo la profonda bontà sua, ma non sapevo quanto essa divenisse vita
              e luce per coloro ch’egli amava. Tutti gli scrivevano affettuosamente; ma le frasi anche più semplici acquistano
              dinanzi alla morte una suggestione e una potenza infinita. La sorella gli scrive della madre malata che pensa
              al figliuolo; del nipotino che comincia a parlare e al ritorno del bravo alpino gli correrà incontro e gli griderà:
              «Ciao zio Pep». Povero bimbo un’altra cosa più grande è andata incontro allo zio, e nell’ombra della morte il tuo
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