Page 77 - Momenti della vita di guerra - Dai diari e dalle lettere dei caduti
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28 Momenti della vita di guerra
suo, sopportando serenamente i sacrifici, godendo di compierli e di soffrire, non può
non aver fede d’essere come che sia ricompensato della purezza dei suoi sentimenti;
della santità dell’opera sua. E forse è già un premio questa fede, più d’istinto che di
volontà, la quale s’irrobustisce invece di scemar di forza col passar dei giorni, e con
l’approssimarsi, forse, di momenti più perigliosi e duri.
Anche guardandola dal lato ristretto e modesto della mia persona, non devo io
benedire alla guerra, che mi ha fatto discoprire, mi ha rivelato la saldezza di membra
e più d’animo, quale forse, prima, non mi pensavo d’avere? Se mi sarà concesso di
vedere il termine di questa guerra (e son sicuro che mi sarà concesso) e di viverla tut-
ta, fortemente, nei disagi e nei pericoli, come fin ora, e più di ora, che cosa potrà più
spaurirmi nella vita, quale impresa potrà sembrarmi ardua e rischiosa, quali dolori o
avversità potranno fiaccare la mia fibra?
Saprò, di certo, affrontare e vincere tutte le battaglie della vita, se continuerò a trion-
fare in quelle cruente della guerra.
Saprò dare un altro indirizzo alla mia carriera, se quella che accettai per bisogno
e non per elezione, continuerà a negarmi le soddisfazioni ch’io devo attendermi e
pretendere, saprò trovare la giusta via in ogni cimento, saprò tener ferma la rotta an-
che nelle burrasche della vita, le quali contano più naufraghi che quelle degli oceani.
Tutto radioso di speranze mi sorride l’avvenire. E come può mentirmi questa voce
interna consolatrice, benefica, come può mentirmi l’anima mia se accanto a me sarai
tu, unico grande amor mio, ed il nostro Fefì, comune oggetto della nostra adorazio-
ne, perché frutto dell’amor nostro? Abbi tu la stessa mia fede, Èlia mia, e sii lieta di
soffrir ora per goder domani una più grande felicità.
Io sono contento anche perché mi pare, con l’opera mia, di lavorare pel mio, pel
nostro Fefí: io lavoro ogni giorno e do il braccio, e, nel mio piccolo, anche la mente,
alla patria, non solo perché so che è mio dovere, non solo per l’amore che io sento
per l’Italia nostra, ma anche per lasciare alla nostra creatura un retaggio d’esempi e di
ammaestramenti, con l’orgoglio che non li ho ereditati da nessuno, ma sono opera
mia, frutto dell’educazione che ho voluto e saputo dare al mio spirito, frutto della
volontà mia costantemente diretta al perfezionamento di me stesso.
Vedo che mi lascio trascinare a disvelarti l’intimo dell’animo mio, che tu ben
conosci, che per te non ha più veli. Molto più mi sarebbe caro, Èlia, di ripeterti que-
ste confidenze cingendoti col braccio, baciandoti fortemente sulle labbra più e più
volte finché il desio fosse pago, sentendo battere il tuo cuore sul mio, leggendo nel
tuo sguardo l’assentimento delle mie parole. Molto più caro mi sarebbe di ripeterle
dinanzi alla nostra creatura, serrandomela al petto, come per proteggerla da ogni
pericolo, baciandola nella pura fronte, come per giurare di dedicare tutta la mia vita,
tutte le mie forze, tutto me stesso alla sua elevazione, al suo avvenire.
Pur tuttavia, forse, le mie parole acquistano maggior valore se tu pensi che
sono scritte da presso d’Isonzo, a duecento metri, o meno, dalle linee nemiche.
Ti scrivo dalla stazione di Canale, e per ricordo t’invio un ramoscello di rosa
colto ad una finestra .
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Al sorgere d’un’altra primavera, la vita del Ruggiero veniva meno. Egli doveva aver
troppo duramente piegato la sua persona all’aspra vita. La mattina del 7 aprile 1917
l’attendente, entrato nella sua baracchetta, lo trovò rantolante: il giorno dopo, egli si
spegneva; il cuore generoso si era misteriosamente spezzato.